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giovedì 21 dicembre 2017

Adeste fideles

Avvicinatevi, fedeli
lieti e trionfanti,
venite, venite a Betlemme.
Vedrete il Re degli angeli appena nato,
venite, adoriamo, venite, adoriamo,
venite, adoriamo il Signore.

Ecco, abbandonato il gregge,
all'umile culla
si avvicinano i pastori chiamati dall'angelo,
e noi, pregando, ci affrettiamo volentieri.
Venite, adoriamo il Signore.
Vedremo l'eterno splendore
dell'Eterno Genitore
nascosto in un corpo di carne,
Dio, bambino avvolto in fasce.

Venite, adoriamo il Signore.
Scaldiamo con devoti abbracci
il bambino che per noi è stato fatto
povero e adagiato nel fieno.
Chi non ricambierà l'amore
di chi ci ama così tanto?


Venite, adoriamo il Signore.  

lunedì 11 dicembre 2017

In un recente viaggio a Malta sono venuto a conoscenza di un fatto che mi ha incuriosito e interessato dal punto di vista psicologico.
La lingua maltese è di origine semitica, di derivazione araba a seguito della dominazione islamica durata circa due secoli a partire dal 870 d.C.
Nel tempo si sono aggiunti alcuni vocaboli di origine italiana e inglese, ma la lingua parlata ha conservato la sua impronta araba nella struttura grammaticale e nel vocabolario, mentre per scrivere sono usati i caratteri latini.
I maltesi sono di religione cattolica e, a quanto mi è stato riferito, molto osservanti.
Il fatto che mi ha colpito è che la parola “Dio” corrisponde al maltese “Alla”.
E' interessante notare che fedeli cristiani si rivolgono a Dio come Alla che è il nome di Dio in arabo nella religione islamica.
Tutto ciò è, in realtà, un fatto a cui molti possono attribuire un'importanza limitata, considerandolo un dato scontato.
Eppure, il rapporto fra le due culture religiose sono spesso stati conflittuali in passato. Nell'attuale periodo storico il dialogo inter-religioso assume grande importanza per contrastare derive ideologiche intransigenti che tentano di allontanare popoli con fedi diverse.

In tale contesto porre l'attenzione su quanto detto sembra fornire un piccolo contributo, apparentemente marginale, ma ciò non di meno utile, al dialogo volto alla ricerca di punti di contatto e di unione fraterna.

A margine di tali considerazioni si può ancora ricordare che l'isola di Malta è conosciuta nel Nuovo Testamento (Atti degli Apostoli 28, 1-10) in quanto San Paolo e San Luca vi fecero naufragio intorno al 60 d.C., probabilmente nell'attuale baia di St. Paul.
Rimasero sull'isola per circa tre mesi prima di ripartire alla volta di Roma.
L'episodio del naufragio di Malta fa parte di quei passi degli Atti degli Apostoli in cui si passa dalla narrazione in forma impersonale al "noi".      

giovedì 16 novembre 2017

Tradimento e pentimento

“Pregò per la salvezza dell'anima di Giuda Iscariota, perché pensava che nemmeno il suo caso fosse disperato, perché Dio potrebbe avergli concesso la grazia del pentimento finale nel momento in cui cadde dall'albero”.
Queste parole sono pronunciate da padre Smith, il protagonista del romanzo “All glorious within” (1944) di B. Marshall.
Sono parole che lasciano un po' sorpresi, abituati come siamo a considerare Giuda il traditore per eccellenza, un peccatore senza speranza.
La curiosità suscitata da questa frase ci induce a cercare di approfondire la figura di Giuda prendendo in considerazione gli avvenimenti che lo concernono in quanto solo partendo da questi si può tentare una comprensione psicologica.
E' opinione diffusa che il movente del tradimento sia stata la sete di denaro, il più vile dei motivi.
Nell'episodio di Maria, sorella di Lazzaro, che cosparge i piedi di Gesù con un unguento prezioso (Giovanni 12, 1-6), narrato anche da San Matteo (26, 6-13) e da San Marco (14, 3-9), sia pure con caratteristiche diverse, è rivolta una importante accusa a Giuda il quale osserva che si sarebbero potuti donare ai poveri i soldi ricavati dalla vendita di quel costoso prodotto: “Non lo disse perché si curava dei poveri, ma perché era un ladro: teneva la cassa comune, e prendeva quello che c'era dentro” (Giovanni 12, 6).
D'altronde Giuda “vendette” Gesù ai capi dei sacerdoti per un compenso in denaro (Marco 16, 10-11; Luca 22, 3-6) quantificato da San Matteo (26, 14-16) in trenta monete d'argento.
Tuttavia, quando si accorse delle conseguenze del suo gesto “ebbe rimorso”, restituì le trenta monete d'argento buttandole nel tempio a seguito del rifiuto dei capi dei sacerdoti di riceverle indietro. “Ho fatto male, ho tradito un innocente, e andò a impiccarsi” (Matteo 27, 3-5).
Con quei soldi i capi dei sacerdoti comprarono un campo, detto del Vasaio, che da allora fu detto “Campo del Sangue” (Matteo 27, 6-10).
Negli Atti degli Apostoli (1, 18-19) si ha una versione diversa. Giuda stesso avrebbe comprato con quei soldi un campo e da quello si sarebbe precipitato a capofitto in un baratro.
Molti studiosi ritengono che le due versioni sulla morte di Giuda possano essere ridotte ad una sola: Giuda si impiccò al ramo di un albero il quale si spezzò precipitando in un dirupo.
Notiamo che Giuda non solo si pentì, ma si accorse di avere tradito un innocente. Queste parole sono molto significative in quanto denotano che Giuda si era convinto di non avere tradito il Messia promesso da Dio, ma solo un rabbi qualunque.
Attualmente vi è una certa concordanza di opinioni nel ritenere che Giuda pensava a Gesù come un Messia politico-militare (credenza assai diffusa nel mondo ebraico), capace di sollevare le folle con l'aiuto di Dio in una rivolta vittoriosa contro l'occupazione romana ed avrebbe agito per precipitare quegli avvenimenti che auspicava e che non vedeva realizzarsi. La ricompensa in denaro sarebbe stato un sotterfugio per rendere plausibile il tradimento nascondendone i veri motivi.
In seguito, davanti all'evidente smentita delle sue aspettative, avrebbe preso atto del suo errore riconoscendo Gesù come un innocente senza nessuna pretesa messianica.
D'altronde nel gruppo degli apostoli non sarebbe stato il solo a nutrire tali aspettative. Anche Simone (da non confondersi con Simon Pietro) faceva parte del partito degli zeloti (Matteo 10, 1-4; Marco 8, 13-19; Luca 6, 12-16).
Nel Vangelo Apocrifo di Giuda emergerebbe che egli avrebbe agito di concerto con Gesù affinché si compissero le Scritture con la morte del Messia. Questo Vangelo non autentico di cui esiste una copia in lingua copta databile al IV secolo, sarebbe stato scritto intorno al 150 d.C. e testimonia che alcune comunità cristiane non ritenevano il gesto di Giuda un tradimento. Cerchiamo di capire se tale tesi può essere sostenuta sulla base dei Vangeli Canonici.
Secondo San Giovanni (13, 26-30) Gesù, nell'ultima cena, porse un boccone di pane inzuppato a Giuda dicendogli: “quello che devi fare, fallo presto” senza che gli Apostoli capissero il significato di quelle parole. Fu una frase di sfida od una esortazione ad agire in quanto era giunto il momento ? Il dubbio difficilmente può essere sciolto.
L'arresto di Gesù è narrato con alcune varianti fra gli Evangelisti (Matteo 26, 47-56; Marco 14, 43-50; Luca 22, 47-53; Giovanni 18, 3-12).
Il punto più controverso è il bacio di Giuda. “Intanto Giuda si avvicinò a Gesù e disse: salve Maestro! Poi lo baciò. Ma Gesù gli disse: amico, si faccia quello che sei venuto a fare” (Matteo 26, 49-50). Secondo San Luca (22, 47-49) Gesù rispose: “Giuda, con un bacio tu tradisci il Figlio dell'Uomo?”. Nell'accezione di San Matteo si potrebbero ravvisare parole di sincero affetto, così come un dialogo reciprocamente derisorio, mentre in quella di San Luca appare evidente la condanna quasi con tratti ironici di un tradimento vero e proprio. In mancanza di ulteriori dati appare molto difficile un approfondimento su base psicologica.
Ritengo di non avere le competenze necessarie per esprimere un'opinione adeguata che lascio a studiosi più autorevoli.
Penso che sia senz'altro più sicuro attenersi alla versione degli Evangelisti che parlano di tradimento anche se, come già detto, non necessariamente motivato dall'avidità di denaro.
Per avere un quadro completo bisogna ancora considerare le parole di condanna pronunciate da Gesù e riportate con particolare vividezza da San Matteo ( 26, 24) e San Marco (14, 23) rispetto a San Luca (22, 23): “Il Figlio dell'Uomo sta per morire così come è scritto di lui. Ma guai a colui per mezzo del quale il Figlio dell'Uomo è stato tradito. Per lui sarebbe stato meglio non essere mai nato!”.
Tali parole risultano esplicite e dure. Tuttavia, ad un'attenta analisi, non sembrano necessariamente riferirsi ad una condanna , ma ad una profezia: infatti, la figura di Giuda è diventata nei secoli sinonimo di tradimento e peccato al punto tale che sarebbe stato meglio per lui non essere mai esistito.
In queste parole non ci sembra di ravvisare un giudizio definitivo, soprattutto se si considera il contesto generale del Vangelo improntato al perdono ribadito con forza sulla croce: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno” (Luca 23, 24).
Concludiamo con l'autorevole parere di Papa Benedetto XVI che, nell'udienza del 18 ottobre 2006 ha affermato che se anche il pentimento di Giuda è degenerato nella disperazione con il suicidio, spetta solo a Dio, nella Sua infinita misericordia, misurare il suo gesto. Queste parole ci riportano ancora al Vangelo: “Ciò che è impossibile agli uomini è possibile a Dio” (Matteo 19, 26; Marco 10, 27; Luca 18, 27).

Alla luce di queste considerazioni ci pare condivisibile la preghiera di B. Marshall, alias padre Smith.   

venerdì 10 novembre 2017

In verità Noi creammo l'uomo, e sappiamo quello che gli sussurra l'animo suo, e siamo a lui più vicini della vena grande del collo.
Corano L, 16

venerdì 27 ottobre 2017

Vedere per credere, credere per vedere

“Beati quelli che hanno creduto senza avere visto!”
San Giovanni (20, 29)

Ora che rientro a pieno titolo nell'età anziana, sento il bisogno di mettere per iscritto un ricordo che risale alla mia infanzia.
Potevo avere nove o dieci anni. Ero un ragazzino timido e introverso e, forse, per questo motivo, mi trovavo nel salotto di casa con i miei genitori che erano in compagnia di un anziano signore, invece di essere fuori per strada a giocare al pallone con i miei coetanei. Nell'ora dell'imbrunire li guardavo dalla finestra, sentivo le loro voci e le loro grida di gioia o di scontento, i loro litigi.
A quell'età mi sentivo più sicuro standomene a casa, anche se poi mi sono sbloccato e di pallonate ne ho tirate e parate, anche se non tutte.
Quella sera, però, era davvero speciale.
Questo signore di cui non ricordo pressoché nulla, era un amico e, credo, collega di mio padre. Vestiva in modo elegante, aveva i capelli bianchi come la neve, parlava con entusiasmo, ma pacatamente, raccontando un episodio recente della sua vita di cui ricordo solo la trama portante.
Pochi giorni prima aveva avuto un pauroso incidente d'automobile. Non ricordo assolutamente i particolari, ma doveva essere stato un fatto davvero grave. La vettura su cui viaggiava da solo era slittata sull'asfalto bagnato o su una macchia d'olio. Fatto sta che aveva perso il controllo e l'automobile sbandando e urtando contro il bordo della strada, aveva capottato diverse volte su se stessa andando poi a sbattere contro un albero o una roccia.
Ricordo i miei genitori ascoltare attenti a non perdere una singola parola di questo racconto narrato in modo vivo e appassionante.
Ne era uscito illeso in modo che considerava miracoloso, mentre l'automobile era praticamente solo più un rottame.
Il particolare più interessante era rappresentato da una macchina fotografica che aveva con sé, non ricordo per quale motivo: se si trovava in viaggio o era appassionato di fotografia o la usava per lavoro, non so.
Fatto sta che alcuni giorni dopo portò a sviluppare il rullino che vi era contenuto.
Anticipando soddisfatto lo stupore che avrebbe suscitato nei miei genitori, porse loro una fotografia. La reazione fu superiore alle sua attese a giudicare dall'intensa gioia che a sua volta manifestò.
Le parole di meraviglia si succedevano, si scavalcavano, si anticipavano nella voce commossa di mio padre e di mia madre.
Non capivo che cosa vi potesse essere di così straordinario da suscitare una reazione simile.
La mia curiosità di bambino era alle stelle.
Non ricordo se fui io a chiedere di vederla o se mi fu data di spontanea volontà da qualcuno dei presenti, sicuramente con l'assenso dell'anziano signore. Certamente mi fu raccomandato di tenerla in mano dai bordi in modo da non sciuparla.
Ancora oggi è viva l'immagine che vidi.
Sono consapevole che il ricordo si può trasformare con il passare degli anni, ma dubito che ciò sia avvenuto in questo caso tanto è rimasto inalterato nella mia memoria quando lo rievoco.
A quel tempo, quando le televisioni erano guaste o non veniva trasmesso nulla, lo schermo in bianco e nero era solo un ammasso confuso e informe di figure come fosse un mosaico senza nessun significato in costante movimento.
La fotografia che osservavo attentamente aveva tale aspetto, eppure vi si distingueva nettamente, senza bisogno che nessuno me lo facesse notare, il volto di Gesù, per lo meno così come lo rappresentano tante immagini pittoriche.
Lunghi capelli neri incorniciavano il volto, in cui nonostante le caratteristiche della fotografia simile a uno schermo televisivo informe, si notavano distintamente gli occhi a palpebre chiuse, il naso, la bocca, le guance e il mento avvolti da una barba non folta.
Mentre guardavo affascinato quel volto ascoltavo la fine del racconto.
Quel signore tanto gentile da avermi concesso di guardare la fotografia tenendola fra le mie mani insicure di bambino, si diceva assolutamente convinto che durante l'incidente, a causa dei continui sobbalzi, la macchina fotografica era scattata da sola e aveva fotografato quel volto la cui presenza testimoniava che essere sopravvissuto indenne, nonostante la gravità del fatto, era senz'altro conseguenza di un miracolo.
Lui ne era certo e felice.
Che cosa pensassero i miei genitori dietro le parole di assenso non lo so, ma ritengo che fossero sinceri, né penso di avere mai conosciuto le convinzioni religiose di quel signore prima di tale episodio.
Mi interessa ricordare che cosa pensavo io.
Non lo ricordo.
Ero un bambino, troppo piccolo per pensare cose troppo grandi.
Che cosa penso ora?
Non lo so.


So solo che voglio sperare che quel giorno, in quell'istante, la macchina fotografica abbia colto quello che non ci è dato di vedere, ma solo credere che, forse, è più che vedere.

giovedì 19 ottobre 2017

Psicoterapia e atteggiamento religioso

Nel percorso psicoterapeutico è assai probabile che emerga la questione dell'appartenenza ad una fede religiosa o, invece, di un atteggiamento ateo o agnostico.
Ciò può avvenire nel tempo in modo sporadico e frammentario, oppure la domanda può esser posta dal paziente al terapeuta in modo improvviso ed inaspettato.
L'opposto non dovrebbe mai accadere a meno che si ponga il sospetto che l'atteggiamento religioso, o la sua negazione, incida in qualche modo sulla sintomatologia riferita.
Tale domanda può essere posta a terapia già avviata e ciò permette al curante di modulare la propria risposta in base alle conoscenze che ha del paziente.
In altri casi può essere chiesta all'inizio del trattamento.
In tale situazione si può domandare al paziente il motivo di tale quesito, ma quale che sia la risposta, è opportuno esplicitare la propria opinione con sincerità.
Modulare la risposta, come si accennava in precedenza, può essere importante per non creare possibili barriere che ostacolino il dialogo. Sono, ad esempio, da evitare frasi nette come “sono cattolico osservante” o “ateo convinto”.
Appare più opportuno, nel caso di un credente, fornire risposte più flessibili del tipo “sono cristiano, o meglio, cerco di essere cristiano, cioè di seguire il sentiero indicato dal Vangelo, anche se la mia fede presenta incertezze e dubbi”.
Tale formulazione, oltre a essere veritiera in ogni circostanza in quanto il dubbio non annulla la fede e, come scrive H. Küng (2012) “la vera critica non annienta la fede, la vera fede non ostacola la critica”, presenta un atteggiamento moderato che non si oppone al dialogo, anzi lo può favorire.



Quanto detto è solo un esempio pratico, rappresenta un'opinione maturata in circa quattro decenni di attività psicoterapeutica.

giovedì 5 ottobre 2017

Unità di vita, parole e opere

Particolarmente illuminanti appaiono le opinioni espresse da H. Küng (2012) circa il Gesù storico.
Citiamo alcune frasi fra quelle chi ci sembrano più significative rispetto al tema anticipato dal titolo di questo aggiornamento.

Gesù vive ciò che dice.
L'insegnamento di Gesù, la sua vita, la sua morte sono una inscindibile unità.
Il messaggio di Gesù è inscindibile dalla sua persona che è ancora viva.
Solo una persona storica agisce anche nel presente.
Solo una persona viva può incoraggiare.
Il cristianesimo è, anzitutto, la persona di Gesù.
Essere cristiani significa seguire un uomo, non un'idea.

Queste parole risultano molto importanti nel percorso di fede e di ricerca psicologica che si intende seguire tramite i vari aggiornamenti pubblicati.


H. Küng (2012). Tornare a Gesù. Rizzoli, Milano, 2014   

mercoledì 27 settembre 2017

"Noli me tangere"

Ampia e approfondita appare la dissertazione di M. Vanzini (2012) concernente le opinioni di alcuni studiosi del Nuovo Testamento per quanto riguarda la risurrezione di Gesù.
Secondo la sequenza posta dall'autore, si tratta di: H. Kessler (1989), W. Kasper (1974), J. Moltmann (1989), J. Ratzinger (1977), M. Bordoni (1982), G. O'Collins (1987), M.J. Harris (1990).
Vanzini compie un'analisi comparativa mettendo in luce differenze, similitudini e concordanze fra i vari autori.
Queste ultime possono essere sinteticamente riassunte nei seguenti aspetti:
- Gesù è stato risuscitato da Dio Padre,
- la risurrezione non è un ritorno alla vita precedente, ma rappresenta un qualcosa di nuovo, diverso, unico,
- la risurrezione riguarda il corpo che appare trasformato: inizialmente Gesù non viene riconosciuto, presenta delle potenzialità assenti in precedenza come entrare in una stanza a porte chiuse; è, comunque, in grado di mangiare e bere, conserva le ferite legate alla sua passione e morte, si manifesta solo ai fedeli,
- la risurrezione riguarda il corpo inteso come totalità della “persona”, soprattutto nelle sue caratteristiche di comunicare e relazionarsi con gli altri. La persona può essere intesa come la “storia vissuta” che la rende tale, diversa e unica rispetto ad ogni altra.
Su tali posizioni concorda anche H, Küng (2012), mentre J.P. Meyer (1991) sostiene che la risurrezione, a differenza della vita di Gesù, non può essere indagata con gli strumenti scientifici della storiografia, ma rimane esclusivamente oggetto di fede.
Rimandiamo al saggio “Credere per ragione” del 11/01/2017 per una riflessione su questi temi affrontati con l'ausilio dell'analisi psicologica applicata alle narrazioni evangeliche.
Le considerazioni di Vanzini inducono a riflettere sulla famosa frase rivolta da Gesù a Maria Maddalena, riferita da San Giovanni: “non mi toccare, perché non sono ancora asceso al Padre”, sulla cui traduzione ed interpretazione non vi è accordo fra i vari esegeti.
L'opinione più comune fa riferimento al fatto che il corpo trasformato di Gesù non poteva essere toccato da mano umana proprio per le sue nuove caratteristiche.
Tuttavia, Gesù inviterà l'incredulo San Tommaso a toccate la ferita nel suo fianco, cosa che non avverrà, poiché Tommaso immediatamente crede alla vista del Signore.
Il corpo trasformato di Gesù conserva, come già detto, le capacità di comunicare e relazionarsi con gli esseri umani, ma può avere assunto nuove potenzialità, estranee alla natura umana: comunicare e relazionarsi con Dio Padre.
Ovviamente questa è un'osservazione assolutamente marginale rispetto alla ricca dissertazione di Vanzini, ma può rappresentare un piccolo contributo utile per la comprensione, sulla base di competenze psicologiche, della narrazione evangelica.











sabato 23 settembre 2017

 “C'è un battesimo che devo ricevere; e come sono angosciato finché non sia compiuto.”
(Luca 12, 50)
Siamo a circa metà del Vangelo secondo San Luca, ancora lontani dagli eventi della Passione.
Gesù parla del battesimo di sangue della sua morte in croce.
Gesù aveva già fatto più volte riferimento alla propria morte e risurrezione in modo più o meno esplicito, essendo poco compreso dai suoi discepoli.
Queste parole di Gesù sono meno conosciute rispetto a diversi altri episodi come, in particolare, l'angoscia manifestata nel Getsemani prima dell'arresto.
Sono pronunciate all'interno di un contesto più ampio in cui si parla della divisione che il messaggio evangelico porterà fra gli uomini all'interno di una stessa famiglia con la buona novella dell'annuncio del Regno di Dio.

Queste parole testimoniano che per tutta la vita Gesù non ha vissuto la consapevolezza della sua morte in croce con l'indifferenza di chi è al di sopra del dolore, ma con l'angoscia tutta umana che avvicina l'uomo a Dio e Dio all'uomo.

mercoledì 13 settembre 2017

La Giustificazione

Secondo San Paolo la giustificazione è l'intervento salvifico di Dio, mediante il quale gli uomini partecipano della stessa “Santità” di Dio (S. Cipriani, 1962).
Un'analogia con questo concetto, quasi con significato di parabola, può essere rappresentata dalla giustificazione scolastica, la cosiddetta “giustifica” nel linguaggio studentesco.
Quando un figlio/a minorenne è stato malato ed è rimasto a casa per diversi giorni, la riammissione a scuola necessita della giustificazione scritta da parte dei genitori. Questa attesta che il bambino/a è guarito e di conseguenza:
- non rappresenta più un rischio di contagio nei confronti dei compagni,
- l'ambiente non è più pericoloso nei suoi confronti per la possibilità di recidive.
Si può aggiungere che la guarigione è avvenuta grazie alle cure ricevute dai medici chiamati dai genitori di cui il bambino/a ha avuto fiducia ed ora è “giusto” per tornare nel mondo.
Tale analogia intende rappresentare la giustizia di Dio che giustifica, cioè rende giusti per la fede e per le opere di carità.



lunedì 4 settembre 2017

Assurdo ateo e assurdo religioso

Come l'uomo passerà in Dio se Dio non è passato nell'uomo?
Sant'Ireneo (180 d.C., circa)

A. Camus scriveva (1961): “l'assurdo dipende tanto dall'uomo quanto dal mondo ed è, per il momento, il loro solo legame”.
Nell'universo senza Dio di una parte importante dell'esistenzialismo, la consapevolezza che l'uomo ha di sé e della morte conduce a un divario incolmabile con il mondo, tanto da rendere assurda l'esistenza stessa sia dell'uno che dell'altro. L'essere umano si sente estraneo in questo universo.
“L'assurdo nasce dal confronto fra l'appello dell'uomo ed il silenzio irragionevole del mondo” e “l'uomo ha la consapevolezza di trascendere il mondo, ma la morte lo smentisce”. (A. Maurois, 1950).
Tuttavia non solo l'ateismo, ma anche il cristianesimo si confronta con l'assurdo.
“Credo perché è assurdo” è una frase attribuita a Tertulliano (210 d.C., circa).
“Noi predichiamo Cristo crocifisso: scandalo per i giudei, stoltezza per i gentili” scriveva San Paolo (1 Corinzi 1-23).
Erasmo da Rotterdam (1511) esalta questa “pazzia” che nasce dalla fede in Gesù Cristo morto sulla croce e nel cercare di uniformare la nostra vita sulla via che ci ha indicato nel Vangelo.
Sempre per Erasmo non è forse pazzia l'amore stesso che rende due innamorati ciechi e sordi ad ogni critica razionale? Non è grazie a questa pazzia che l'umanità continua il suo cammino su questa terra?
Non è, invece, assurdo e stolto un mondo come quello aristotelico, retto da un Dio che è Motore Immoto, ente assoluto che rappresenta il legame fra l'uomo e l'universo. E', infatti, razionale, ma irragionevole ed inumano secondo una logica cristiana.
Nell'ebraismo Dio è una Persona e nel cristianesimo questa Persona si fa persona umana per morire per l'uomo, per tutti gli uomini fino ai confini della terra, fino al termine del tempo.
L'assurdo cristiano si spinge ancora oltre: “Dio, creando l'uomo, si è reso dipendente da lui” (Benedetto XVI, 2011); “La scelta dell'incarnazione espone Dio alla vulnerabilità” (Y. Redalié, 2011).
Come può essere tutto ciò? Non ci è stato insegnato che Dio è perfetto in se stesso, bastante a se stesso?
Tuttavia, l'assurdo e la pazzia sarebbero proprio questo. La psicologia ci insegna che nell'amore si trova la completezza dell'essere umano e ciò è tanto più vero per Dio che, secondo il teologo J. Moltmann (1964), è il più “folle” innamorato dell'universo.
L'amore non può che essere rivolto al di fuori di sé.
In questa dipendenza, in questa vulnerabilità ritroviamo la vera perfezione di Dio che annulla l'assurdo. “Dio non giudica la nostra vita, ma la condivide, la assume” (G. Bernanos 1936).
L'amore è gioia e sofferenza.
Gesù è nel Getsemani, Gesù è sulla croce: è possibile immaginare Dio Padre indifferente? No, non è possibile.
Non sarebbe umano, non sarebbe divino. Infatti, secondo Moltmann, sulla croce non è in agonia soltanto Gesù, ma anche il Padre per il quale visse e predicò.



mercoledì 26 luglio 2017

Il Gesù storico si dimostra assolutamente inconfondibile, oggi come allora.
Il messaggio di Gesù è, in effetti, incommensurabilmente diverso.

H. Küng (2012)

domenica 16 luglio 2017

Disturbi di personalità e consapevolezza del bene e del male

I disturbi di personalità rientrano nelle classificazioni psichiatriche. Sono numerosi e con caratteristiche che li differenziano gli uni dagli altri, ma presentano alcuni aspetti comuni:
- egosintonia: questi soggetti presentano tratti del carattere problematici per la vita relazionale, di cui sono coscienti, ma che non vivono come tali, anzi, ne vanno sovente fieri,
- anempatia: ridotta o assente capacità di mettersi nei panni degli altri e di considerare il loro punto di vista, di vedere il mondo e se stessi nell'altrui prospettiva,
- anedonia: difficoltà a trarre piacere da ciò che, invece, interessa altre persone e, talora, essere soddisfatti dalle altrui sofferenze. In alcuni casi si presenta come noia esistenziale,
- aggressività: tendenza a prevaricare gli altri imponendo le proprie opinioni e stili di vita, rifiutando le critiche che possono ricevere. Presentano, talora, problemi a gestire l'impulsività,
- egocentrismo: porre se stessi ed i propri vissuti al centro del mondo,
- intolleranza alle frustrazioni: incapacità di subire critiche e difficoltà a raggiungere traguardi che impongano impegni psicologici e relazionali che giudicano troppo elevati, con tendenza a scoraggiarsi facilmente.
In poche parole sono persone che fanno soffrire il loro prossimo piuttosto che soffrire essi stessi. Vivono in una condizione soggettiva in cui non vi è distinzione etica fra il bene ed il male secondo una logica comune e condivisa, ma permane la cognizione di entrambi.
Sono spesso persone con una vita sociale e lavorativa di successo. In altri casi conducono una vita solitaria e anonima. Altre volte vivono ai margini della società con problemi di abuso di alcool e di sostanze stupefacenti. Presentano, talora, disturbi della sfera sessuale.
Sono spesso impulsivi, sospettosi, gelosi, invidiosi, oppositivi, litigiosi.
Generalmente giungono all'osservazione psichiatrica per motivi giuridico-peritali e non a fini terapeutici.
Sono responsabili di molti reati legati alla violenza. Talora comportamenti molesti e aggressivi rimangono nascosti e celati entro le mura domestiche, protetti dall'omertà familiare, conseguenza della paura.
Si tratta della “violenza cronica” caratterizzata da atti ripetuti nel tempo, anche quotidiani e protratti per anni.
Manifestazioni tipiche sono: violenza nei confronti di minori e di donne anche con abuso sessuale, stalking, bullismo che sovente assume carattere di gruppo, vandalismo, reazioni aggressive immotivate. Talora la violenza giunge fino all'omicidio che può essere a sua volta reiterato come nel caso dei serial killers o presentare proporzioni allargate nel fenomeno dell'integralismo politico o religioso.
Nei casi più gravi il confronto con l'autorità di polizia e giudiziaria, con la sanità medica e psichiatrica, la carcerazione e l'ospedalizzazione, possono trasformare l'egosintonia di questi individui in egodistonia che copre un'ampia sfera psicologica dalla “normalità” alle nevrosi. Allora possono prendere coscienza del male insito nei loro comportamenti e soffrirne anche se, talora, in modo superficiale e altalenante. In altri casi vi è una presa di coscienza più solida e duratura fino alla consapevolezza del peccato.
Se ne trova un magnifico esempio in “Delitto e castigo” di F. Dostoevskij (1866). Il protagonista, Raskol'nikov, commette un omicidio nella perfetta auto-consapevolezza di compiere un atto giusto. In seguito a diversi avvenimenti, il senso di colpa compare in modo sempre più intenso fino alla confessione e conseguente carcerazione. Nel romanzo si trova un'esemplare narrazione del passaggio fra egosintonia ed egodistonia.
Come affermava Don Michele Do: “il male per diventare redentivo, deve diventare sofferenza” (1990).




lunedì 3 luglio 2017

Fede, scienza e guarigioni miracolose

E' stato osservato da più parti (H. Küng, 2012) che quanto maggiormente accostava i fedeli al messaggio evangelico nei tempi passati, oggi, nell'epoca della scienza e della tecnologia, sembra suscitare l'effetto opposto di perplessità e incredulità. Si tratta dei miracoli.
Ai discepoli di San Giovanni Battista che lo interrogano se è lui il Messia tanto atteso, Gesù risponde: “Andate e riferite a Giovanni ciò che voi udite e vedete: i ciechi vedono, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è predicata la buona novella e beato chi non si scandalizza di me” (Matteo 11, 2-6; Luca 7, 18-23).
Molti obiettano che non è possibile verificare a distanza di tanto tempo episodi che sono stati narrati quando non esistevano cognizioni scientifiche che prevedessero verifiche e controlli.
Ciò è vero fino ad un certo punto poiché, dopo la guarigione dal cieco dalla nascita (Giovanni 9, 1-41), i farisei, per accertare il fatto, interrogano i suoi genitori e l'interessato stesso. Nonostante queste evidenze i farisei non solo non credono, ma lo cacciano via e sfidano Gesù: “ siamo forse ciechi anche noi?" (Giovanni 9, 40).
Tale atteggiamento è riportato in numerose altre situazioni riferite nei Vangeli.
Quindi, già allora, il preconcetto impediva una critica razionale davanti ad un fatto accertato e di cui si è stati testimoni oculari.
Nell'età moderna è diffusa l'opinione anche fra gli addetti ai lavori che la scienza fornisca certezze e di ciò che non può essere spiegato si tende a negarne persino l'esistenza.
Il pregiudizio religioso d'un tempo e il preconcetto scientifico attuale finiscono per giungere alla stessa conclusione.
Eppure l'odierna epistemologia ci insegna che la scienza non fornisce certezze, ma è lo studio delle probabilità statistiche.
Ciò che è successo una sola volta non può essere testato e verificato, ma non per questo se ne può negare l'esistenza. Si deve riconoscere che non può essere spiegato.
La letteratura medica (Kappauf et al., 1997; Scarso, 2009) documenta alcune centinaia di casi nel mondo negli ultimi decenni (da quando vengono effettuate ricerche in questo senso) di “guarigioni inspiegabili”, soprattutto neoplasie e malattie degenerative, che si verificano senza alcun intervento medico.
Quanto detto è un invito a tenere la mente aperta nei confronti di un mondo che non è sempre comprensibile secondo i criteri del metodo scientifico.

Tali considerazioni rimangono in ambito psicologico.
Come osserva Küng nel Nuovo Testamento non si può parlare di una popolare “miracolistica”. Le guarigioni operate da Gesù non sono solo effetto del suo amore per il prossimo, ma fanno parte di quei segni tangibili indicanti che il Regno di Dio inizia ad operare in questo mondo e hanno un significato religioso e teologico che va ben oltre queste considerazioni.

Kappauf et al. Complete and spontaneous remission in a patient with metastatic small cell lung cancer. Case report, review of literature and discussion of possible biological pathway involved. Annals of Oncology 8/1031-1039, 1997
Küng (2012). Tornare a Gesù. Rizzoli, Milano, 2014
Scarso G. Il nesso di causalità. Aracne Editrice, Roma, 2009 

giovedì 15 giugno 2017

Il discorso escatologico

Presso le comunità cristiane del I° secolo d.C. era diffusa la credenza che la fine del mondo fosse imminente a tale punto che i primi fedeli erano convinti di assistere essi stessi a questo evento, come attesta anche San Paolo (2 Tessalonicesi 2, 1-2).
Andando contro l'esegesi più accreditata del Nuovo Testamento, H. Küng (2012) si dice convinto che tale idea fosse riconducibile alla parole stesse pronunciate da Gesù.
A duemila anni di distanza possiamo testimoniare che tale profezia non si è avverata. Gesù si è sbagliato o ha mentito? Tale ipotesi è da rigettare come totalmente assurda sotto ogni punto di vista, teologico e psicologico in primo luogo. Anche Küng ne sarebbe d'accordo.
E' opinione prevalente fra gli esegeti del Nuovo Testamento che tale credenza fosse presente in base al discorso escatologico di Gesù, riferito dai tre evangelisti sinottici, San Matteo, San Marco, San Luca, che si dimostra di non facile interpretazione tanto da lasciare pensare che essi stessi abbiano avuto difficoltà a comprenderlo (Matteo 24, 1-36 e 25, 31 46; Marco 13, 1-37; Luca 21, 5-36).
Le difficoltà nascerebbero dalla sovrapposizione di tre diverse profezie.
- La prima, inerente il Regno di Dio, ha un valore più immanente che trascendente in quanto si riferisce all'affermarsi della volontà di Dio su questa terra in modo lento, graduale, costante e inarrestabile fino ai confini del mondo.
- La seconda riguarda la distruzione del Tempio di Gerusalemme avvenuta nel 70 d.C. ad opera dei romani durante la prima guerra giudaica.
- La terza si riferisce alla Parusia, cioè il ritorno di Gesù Cristo nella sua gloria divina per giudicare i vivi e i morti. Sarebbe ciò che viene comunemente denominato Giudizio Universale che, secondo la profezia, avverrà dopo guerre, terremoti, carestie, pestilenze, persecuzioni contro i discepoli e la comparsa di falsi profeti, ma solo dopo che il Vangelo sarà proclamato a tutte le genti.
Le difficoltà di interpretazioni derivano dalle seguenti frasi.
In verità vi dico: non passerà questa generazione prima che tutto questo accada. Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno. Quanto a quel giorno e a quell'ora nessuno lo sa, neanche gli angeli del cielo e neppure il Figlio, ma solo il Padre” (Matteo 24, 34-36).
In verità vi dico: non passerà questa generazione prima che tutte queste cose siano avvenute. Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno. Quanto poi a quel giorno e a quell'ora, nessuno li conosce, neanche gli angeli del cielo, e neppure il Figlio, ma solo il Padre” (Marco 13, 30-32).
Così pure, quando voi vedrete accadere queste cose, sappiate che il regno di Dio è vicino. In verità vi dico: non passerà questa generazione finché tutto sia avvenuto. Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno” (Luca 21, 31-33).
La frase più problematica è: “non passerà questa generazione finché tutto sia avvenuto”.
Per orientarci in questo discorso molto complesso ci può essere di aiuto una riflessione di Erasmo da Rotterdam (1516) il quale osservava che per quanto riguarda l'Aldilà Gesù ha detto molto poco, considerando che il suo messaggio fondamentale è rivolto alla vita terrena. Erasmo aggiunge che quanto non è chiaro nei Vangeli al momento attuale, lo potrà divenire in futuro alla luce di nuovi eventi.
Infatti, nel Vangelo di Luca si trova un passo, assente negli altri due sinottici, sul fatto che Gerusalemme sarà circondata da eserciti e calpestata dai pagani (Luca 21, 20-24).
E' opinione ampiamente condivisa che i Vangeli di Matteo e Marco siano stati scritti prima del 70 d.C., mentre quello di Luca intorno a tale data o poco dopo. In questo caso, considerato che l'assedio a Gerusalemme durò alcuni mesi dopo una guerra di circa quattro anni, Luca poteva essere al corrente di fatti sconosciuti agli altri due evangelisti.
Se si tengono presenti le osservazioni circa la validità psicologica della testimonianza oculare e del suo ricordo nel tempo (Credere per ragione del 11/01/2017) si può considerare come altamente probabile che gli evangelisti, non riuscendo a orientarsi con facilità tra queste parole di Gesù, abbiano attribuito a tutto il suo discorso una frase che era riferita solo alla distruzione del Tempio che si verificò quando era ancora in vita una buona parte della sua generazione.
Inoltre, appare utile precisare che alla distruzione del Tempio veniva conferito un significato teologico-storico particolare come transizione tra la vecchia tradizione della Legge ebraica e il nuovo messaggio cristiano, tra l'Antico ed il Nuovo Testamento (Benedetto XVI, 2011). Il Regno di Dio non è più chiuso entro delle mura, accessibile solo ai sommi sacerdoti, ma è ovunque in mezzo alla gente.
Il discorso escatologico s'inserisce nel messaggio immanente che pervade i Vangeli: vigilate e siate pronti perché Dio può manifestarsi in ogni momento.
La frase riferita a quel giorno e a quell'ora conosciuta solo dal Padre assume, per come è formulata, una rilevanza che la evidenzia rispetto al restante discorso e sembra riferirsi in modo particolare proprio al momento della Parusia descritta come improvvisa e rapida come un fulmine.











mercoledì 7 giugno 2017

Alla ricerca della fonte Q nei Vangeli sinottici

Studiosi del Nuovo Testamento, provenienti da varie discipline, concordano a grande maggioranza sull'esistenza di una fonte, denominata Q dal tedesco Quelle, comune ai tre Vangeli sinottici di San Matteo, San Marco e San Luca.
La loro somiglianza, sia pure con delle diversità, lascia pensare, appunto, all'esistenza di una fonte comune a cui hanno attinto i tre evangelisti, soprattutto per la vita, le parole e le opere di Gesù, rimanendo a parte la Passione e la Risurrezione.
Si ritiene che tale fonte sia costituita:
- dalla predicazione orale degli apostoli dopo la morte e risurrezione di Gesù, in particolare quella di San Pietro che sarebbe fondamentalmente raccolta nel Vangelo di Marco,
- da scritti andati perduti, parzialmente confluiti nei Vangeli canonici e in quelli apocrifi, compresi i Loghia di Gesù, tratti dalla sua predicazione.
A tale proposito appare interessante l'affermazione di Papia (125 d.C., circa), probabilmente discepolo di San Giovanni, che ha scritto: “Matteo coordinò i detti in lingua ebraica; ciascuno poi li ha interpretati come poteva” (citato da Eusebio di Cesarea, 324 d.C., circa).
Vi è una generale concordanza di opinioni che Matteo abbia messo per iscritto in aramaico in modo non sistematico i suoi ricordi della vita di Gesù, raccogliendo anche altre testimonianze oculari.
Si ritiene che in un secondo tempo Matteo stesso abbia elaborato tale materiale nel suo Vangelo con una trama narrativa più strutturata, scrivendolo in greco.
Ciò richiama la discussione circa la priorità fra i Vangeli di Matteo e Marco, mentre esiste una concordanza di opinioni sul fatto che quelli di Luca e Giovanni siano posteriori.
La tradizione attribuisce la priorità a Matteo, mentre studi più recenti l'attribuirebbero a Marco.
Non è improbabile che la raccolta di detti in aramaico di Matteo sia antecedente ad ogni altro scritto, ma che il Vangelo di Marco venga prima di quello greco di Matteo.
Un'attenzione psicologica lascerebbe pensare che tale possa essere la successione dei fatti e che la fonte Q possa essere, almeno in parte, la raccolta scritta di detti in aramaico attribuita a Matteo.
Tale considerazione, presente nell'esegesi del nuovo testamento, ha avuto poco seguito ed è stata, anzi, rigettata come poco attendibile in quanto non sufficientemente suffragata da altre testimonianze (Wikipedia, fonte Q; J. Weiss, 1917).
Tuttavia, secondo il metodo di procedimento scientifico, per comprendere un determinato fenomeno occorre elaborare delle ipotesi prendendo in considerazione in prima istanza la più semplice sul piano epistemologico.
In questo caso la correlazione fra l'affermazione di Papia e la probabile origine della fonte Q appare la più attendibile considerata la vicinanza temporale. Inoltre, non vi sono altre testimonianze paragonabili a questa per importanza e la fonte Q materialmente non esiste se non come ipotesi esplicativa, non meglio identificata e specificata, delle somiglianze fra i tre Vangeli sinottici ed è stata proposta solo nel 1801 (H. Marsh).

Per approfondimenti bibliografici si rimanda alla bibliografia del saggio “Credere per ragione” del 11/01/2017.

lunedì 29 maggio 2017

La storia è l'eterna protesta per la libertà.
J. Michelet (1831)

Ogni risveglio autentico di vita cristiana, nella storia della chiesa, ha preso le mosse dal Vangelo.
M. Heim (2000)

Conoscerete la verità e la verità vi renderà liberi.
San Giovanni (8, 32)

giovedì 18 maggio 2017

"Perché a loro parli con parabole?"

“Perché a loro parli con parabole?”

Questa è la domanda che gli apostoli pongono a Gesù dopo il racconto della parabola del seminatore ad una folla riunita per ascoltarlo. 
La risposta fornita rappresenta uno dei punti più controversi del Nuovo Testamento considerata la discordanza fra i tre evangelisti sinottici (Matteo 13, 10-17; Marco 4, 10-12; Luca 8, 9-10).
Gli esegeti delle Sacre Scritture hanno fornito diverse interpretazioni, riassumibili nelle due seguenti. Le parabole sono usate per:
- proporre una riflessione che lasci liberi gli ascoltatori di avvicinarsi a Gesù per comprendere meglio,
- rendere il proprio messaggio parzialmente velato agli ebrei, in maggioranza poco ricettivi, affinché, di conseguenza, possa essere divulgato al mondo pagano che lo accetterà con una diffusione più vasta e universale.
Considerata la varietà delle traduzioni in italiano, preferiamo attenerci al testo greco di A. Merk (1992), nel tentativo di affrontare tale questione alla ricerca di una risposta che ci paia più convincente, in maggiore sintonia con il messaggio evangelico nel suo insieme.
Matteo: “perchè vedendo non vedono e udendo non odono e non comprendono”.
Marco: “affinché vedendo vedano e non capiscano e ascoltando ascoltino e non comprendano, e non si convertano e sia loro perdonato” citando Isaia 6, 9-10.
Luca: “affinché vedendo non vedano e vedendo non comprendano”.
Perché significa “a causa di” e affinché “al fine di”.
La versione di Matteo non pone particolari problemi interpretativi. La parabola, usata anche in precedenza da predicatori ebrei e successivamente dai rabbini, non costituisce una novità e presenta l'intento di spiegare un concetto astratto o di difficile comprensione con una storia generalmente tratta dalla vita quotidiana.
Le folle di gente povera, semplice, hanno più facilità a comprendere tramite tale modalità in quanto accettano il messaggio di Gesù e, anche se non lo comprendono totalmente, ne sono attratte. Infatti, seguono e talora inseguono il Messia per saperne di più.
Gli apostoli stessi chiedono chiarimenti sulla parabola del seminatore.
Secondo Matteo l'insegnamento tramite parabole avrebbe lo scopo di rendere più fruibile un messaggio altrimenti difficilmente accessibile, come viene spiegato poco dopo: “Tutte queste cose Gesù disse alle folle con parabole e non parlava ad esse se non con parabole, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta: aprirò la mia bocca con parabole, proclamerò cose nascoste fino dalla fondazione del mondo” citando il Salmo 28, 2 (Matteo 13, 34-35). “Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere. Senza parabole non parlava loro, ma in privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa” (Marco 4, 33-34).
Le difficoltà interpretative nascono dalle versioni fornite da Marco e Luca che sembrano affermare l'esatto contrario rispetto a Matteo.
Ad un approccio psicologico quanto riferito da Matteo appare in sintonia con la globalità del messaggio contenuto nei Vangeli. Marco e Luca hanno frainteso le parole del loro Maestro?
Proviamo a cercare una soluzione al problema affidandoci ad una riflessione di Y. Redalié (2011): ”E' un'illusione che una sola voce umana possa essere la trascrizione perfetta della parola di Dio”.
Quando Giovanni Battista dal carcere (Matteo 11, 2-6; Luca 7, 18-23) invia due suoi discepoli a chiedere se è lui che deve venire, Gesù risponde mettendo in evidenza i miracoli compiuti, ma conclude: “e ai poveri è predicata la buona novella”.
Riportiamo ancora un passo con le parole di Matteo (11, 25-26), ma riferito anche da Luca (10, 21): “In quel tempo Gesù disse: Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascoste queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perchè così hai deciso nella tua benevolenza”.
Dopo il racconto della parabola della vigna e dei contadini omicidi (Matteo 21, 35-45; Marco 12, 1-12; Luca 20, 9-19), i capi dei sacerdoti e i farisei capirono che parlava di loro. Cercavano di catturarlo, ma ebbero paura della folla, perché lo considerava un profeta.
Da una parte troviamo le folle dei poveri, dei semplici, che sono ben disposte ad ascoltare il messaggio di Gesù e si sforzano di comprenderlo, potremmo dire con la mente e con il cuore.
Dall'altra vi sono i depositari della dottrina ortodossa giudaica, dotati di un ruolo che è anche di potere. Capiscono, ma con il loro atteggiamento preconcetto e ostile, tentano di muovere contro Gesù.
“Capire” ha un significato prevalentemente cognitivo-razionale, mentre “comprendere” ha anche un contenuto affettivo-relazionale (prendere insieme). Su questa differenza si basa la diversità di atteggiamento fra il popolo e i suoi capi religiosi.
Alla luce di queste considerazioni, la versione fornita da Marco e Luca appare psicologicamente comprensibile. Matteo riferisce la risposta di Gesù riguardante le folle, Marco e Luca ne riportano un'altra concernente i capi religiosi.
Entrambe le frasi sarebbero state pronunciate, probabilmente in momenti e contesti diversi.
Una conferma di tale ipotesi potrebbe provenire da una constatazione significativa: la conclusione di Marco “e non si convertano e sia loro perdonato”, che sarebbe riferita, in base a quanto detto, ai capi religiosi.
Gesù comprende che costoro hanno un ruolo da difendere e oppongono resistenza al messaggio evangelico. Infatti, Gesù dice: “A chi parlerà contro il Figlio dell'uomo, sarà perdonato, ma a chi parlerà contro lo Spirito Santo, non sarà perdonato, né in questo mondo, né in quello futuro” (Matteo 12, 32; Luca 12, 10).


Di dimensione divina sono la comprensione e la misericordia di Gesù che saranno ribadite con ancora più forza sulla croce: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno” (Luca 23, 34).

martedì 9 maggio 2017

Una breve riflessione su psicoterapia e Vangelo

Sarebbe più corretto parlare di psicoterapie in quanto ne esistono diverse in base agli orientamenti teorici ed alla prassi, per cui si possono avere, ad esempio, terapie individuali e di gruppo.
Le terapie ad orientamento psicodinamico si basano sulla relazione terapeuta-paziente che si sviluppa in un arco di tempo generalmente lungo, mesi o anni, a meno che non venga stabilita già all'inizio una durata concordata, che può essere di dieci-quindici sedute, come si verifica nelle psicoterapie brevi rivolte ad affrontare problematiche centrate su una particolare tematica esistenziale.
Nella formazione dello psicoterapeuta risulta fondamentale avere compiuto un percorso formativo personale volto ad acquisire una consapevolezza introspettiva (insight) delle proprie problematiche inconsce in modo da riconoscerle e non confonderle con quelle che vengono proposte dai pazienti.
Lo psicoterapeuta può utilizzare le proprie difficoltà per entrare in sintonia con il paziente, ma deve essere consapevole di fornire un'adeguata risposta a quelle del soggetto in cura.
Ciò fa parte del processo empatico di cui si è già parlato.
L'empatia è rafforzata dall'esperienza che si matura nella prassi professionale: i migliori insegnanti sono proprio i pazienti.
Anche le esperienze di vita devono essere utilizzate per mantenere tale capacità e rinforzarla piuttosto che indebolirla con il rischio di incorrere nel burn-out, cioè di avere importanti difficoltà nell'esercitare la propria professione.
Prima di essere in grado di aiutare un'altra persona, lo psicoterapeuta deve avere acquisito una buona consapevolezza del proprio modo di affrontare le situazioni conflittuali e problematiche della vita affettiva e relazionale.
Quanto sinteticamente esposto può essere detto in modo ancora più coinciso ed efficace con un passo molto conosciuto del Vangelo.
“Perché stai a guardare la pagliuzza che è nell'occhio di tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio? Come puoi dire al tuo fratello: lascia che tolga la pagliuzza dal tuo occhio, mentre nel tuo occhio hai una trave? Ipocrita! Togli prima la trave dal tuo occhio: allora tu ci vedrai bene e potrai togliere la pagliuzza dall'occhio di tuo fratello” (Matteo 7, 3-5; Luca 6, 41-42).
Certamente tale frase ha una portata molto più vasta e universale rispetto a quanto detto delle terapie psicodinamiche che, a loro volta, presentano risvolti teorico-pratici assai più complessi rispetto a quelli esposti.
Al di là di analogie e differenze, si suggerisce ad ogni psicoterapeuta, di meditare e ricordare tale frase: ciò può essere quanto mai utile, basandomi sulla mia esperienza personale, per accrescere l'insight, al fine di esercitare in modo proficuo la propria professione, senza parlare della vita in generale.

La saggezza contenuta in queste parole, ha sicuramente un impatto emotivo immediato, utile nella pratica quotidiana più di tante speculazioni teoriche.         

giovedì 4 maggio 2017

A conferma di quanto pubblicato il 27/04/2017, si osserva che dal mondo dell'ateismo possono giungere contributi utili ed arricchenti per una riflessione in ambito cristiano.
G. Reale, filosofo e pensatore cattolico, cita Camus secondo il quale Gesù è venuto al mondo per affrontare due problemi che la filosofia non risolverà mai.
Primo: perché soffro?
Secondo : perchè nasco con appeso al collo il cartello “condannato a morte”?

Reale (2010) osserva che Gesù li ha presi su di sé, quindi li ha sacralizzati.     

giovedì 27 aprile 2017

Numerosi pensatori atei sono rimasti attratti e affascinati dalla figura storica di Gesù.
Ne vogliamo citare tre che ci paiono assai significativi per la stima e l'affetto che hanno manifestato nei Suoi confronti.
E. Renan è uno storico che ha compiuto diverse ricerche sul cristianesimo del I secolo d.C., riconoscendo nel messaggio di Gesù un contenuto di straordinario valore, ma negandone l'origine divina.
F. Nietsche, nell'ambito della sua opera filosofica, ha teorizzato la fine del cristianesimo a causa delle idee illuministiche che squalificavano la religione come una mitologia favolistica e superstiziosa, anche se ricuperavano i concetti di libertà, eguaglianza, fratellanza.
A. Camus, vincitore del premio Nobel per la letteratura nel 1957, ha elaborato il tema dell'assurdo che nasce dall'insanabile contrapposizione tra l'uomo e l'universo a causa dell'assenza di Dio. Il suo sofferto e meditato ateismo che lo conduce alla ricerca di un'etica non fondata su una trascendenza, lo rende, comunque, molto vicino a Gesù uomo.

A testimonianza di quanto detto riportiamo tre brevi, ma significative citazioni che possono essere fonte di meditazione anche per i credenti.

Gesù è l'individuo che ha fatto fare alla specie umana il più grande passo verso il divino.
E. Renan (1863)

Tutto quanto soffre, tutto quanto è appeso alla croce è divino. Tutti hanno pensato di cambiare il mondo uccidendo. Gesù solo l'ha cambiato lasciandosi uccidere.
F. Nietsche (1885)

Gesù ha gridato la propria agonia e perciò lo amo, questo amico morto senza sapere.
A. Camus (1956)

mercoledì 19 aprile 2017

Psicologia e Religione. Introduzione.

I concetti "psicologia della religione" e "psicologia religiosa" appaiono molto ampi e corrono il rischio di rimanere senza significato se non vengono contestualizzati nei loro ambiti di applicazione, nelle metodologie di indagine e negli obiettivi dichiarati.
Sarebbe meglio parlare di "psicologia della religiosità", intendendo l'atteggiamento religioso di un individuo o di una collettività, ricercando quanto e come questo possa incidere sulla vita affettiva, cognitiva e relazionale di una o più persone.
La religiosità non è necessariamente sinonimo di spiritualità, che si può manifestare anche al di fuori del contesto di una determinata fede, ma è caratterizzata dall'appartenenza ad una religione specifica.
I settori di indagine possono essere numerosi:
- indagare aspetti personologici di soggetti che vivono in una dimensione di elevata religiosità sia laici che clerici fino al fenomeno della "vocazione",
- studiare l'effetto che tale atteggiamento ha in ambito sociale, relazionale, famigliare,
- indagare fenomeni particolari come le estasi mistiche sia individuali che di gruppo,
- analizzare le personalità di santi e mistici attraverso i testi che ci hanno lasciato,
- studiare l'importanza che un'educazione religiosa assume nello sviluppo della personalità durante l'età evolutiva, valutando le varie tipologie dell'educazione stessa,
- indagare la religiosità in relazione a vari parametri come l'età, il genere, la cultura, l'etnia.
- ricercare gli aspetti psicologici che possono caratterizzare scelte religiose fanatiche e integraliste che giungono fino alla negazione stessa dei valori della fede,
- studiare le caratteristiche personologiche di soggetti che si dichiarano atei o agnostici.
Questo elenco non è evidentemente esaustivo dei settori di studio, ma può rappresentare una base di riflessione per ulteriori approcci.
Le metodologie di indagine sono a loro volta molto varie: si va dall'applicazione di test di tipo cognitivo all'analisi tramite le teorie psicodinamiche e relazionali con un approccio di tipo narrativo. Ciò rende assai complicata la comparazione dei dati quantitativi e qualitativi in quanto ogni studioso usa un determinato metodo applicato ad un preciso obiettivo di ricerca.
Bisogna, inoltre, precisare che la psicologia, come ogni scienza, deve limitarsi al proprio ambito di competenza e non può invadere il settore della speculazione teologica.

Come già sostenuto nel saggio "Credere per ragione" del 11/01/2017, il cristianesimo si basa sulla fede che Dio è entrato nella storia dell'umanità incarnandosi in Gesù di Nazareth.
Questo atto di fede rappresenta dal punto di vista della ragione un'ipotesi che può essere indagata su base scientifica attraverso la storiografia che si avvale, a sua volta, di diverse discipline tra cui la psicologia applicata allo studio delle testimonianze scritte pervenuteci dal passato.
Non si vuole ripetere quanto già considerato nel saggio a cui si rimanda.
Qui ci si limita a ricordare la possibilità di leggere il Nuovo Testamento con un'attenzione psicologica caratterizzata dall'empatia come strumento di indagine. Questa consiste nel tentativo di mettersi nei panni degli Scrittori  Sacri per quanto possibile, considerata la distanza temporale ed il fatto che questi sono stati testimoni diretti o indiretti di quello che risulta essere un evento unico nella storia.
In tale caso, più che in ogni altro, la psicologia deve dimostrarsi umile nel riconoscere i limiti insiti nei propri metodi di ricerca.

Con "psicologia e religione" si intende l'indagine dei contributi che psicologia e religione possono scambiarsi reciprocamente.
Uno degli aspetti principali è ricercare nei Vangeli la figura storica di Gesù, la sua vita, le sue parole e tramite queste provare a seguire il sentiero che ci indica verso il Padre Suo e Padre Nostro sempre più in sintonia con il Suo messaggio.
Un altro aspetto importante è indagare i Testi Sacri al fine di trovare insegnamenti utili alla prassi psicoterapeutica non necessariamente attuata solo con persone credenti.
Tale ricerca è rivolta anche ad altre religioni così come alla filosofia ed alla letteratura.
Tutto ciò non è limitato all'attività professionale, ma può interessare la vita in generale.
In ultima analisi si tratta di un cammino psicologico-spirituale fatto di ricerche, osservazioni, meditazioni, sul sentiero del cristanesimo come punto di riferimento principale.

lunedì 10 aprile 2017

Si desidera tornare brevemente sul tema della traduzione del Padre Nostro (29/03/2017) con alcune osservazioni.
Assai illuminanti appaiono le parole di San Paolo (1 Corinti, 10- 13): "Tutte le difficoltà che avete dovuto affrontare non sono state superiori alle vostre forze. Dio mantiene le sue promesse e non permetterà che siate tentati al di là delle vostre forze. Nel momento della tentazione Dio vi dà la forza di resistere e di vincere" dove, come già detto, in base al testo greco, "siate tentati" e "tentazione" possono essere tradotti con "siate messi alla prova" e "prova".
Con la preghiera di non metterci alla prova, Gesù ci presenta Dio come Padre misericordioso: dal latino "miserere" che significa provare compassione (con-patire, soffrire insieme).

venerdì 7 aprile 2017

Io ho medicato la ferita, Dio l'ha guarita.
Ambroise Paré (1510-1590)
Chirurgo alla Corte di Francia

mercoledì 29 marzo 2017

Padre Nostro: proposta di una nuova traduzione

Da diversi anni e da più parti si chiede una revisione della frase molto discussa del Padre Nostro: e non ci indurre in tentazione.
Si osserva che Dio, Sommo Bene, non può essere parte attiva nell'indurre l'uomo in tentazione.
Numerose iniziative religiose in molti paesi cercano di elaborare traduzioni che siano in maggiore sintonia logico-psicologica con il Nuovo Testamento dove Dio è presentato come misericordia, perdono, amore.
La CEI (Conferenza Episcopale Italiana) ha recepito tale esigenza ed ha approvato una nuova traduzione della Bibbia (L'Osservatore Romano, 25/05/2008) in cui si legge: "non abbandonarci alla tentazione" (La Bibbia, CEI, G. Betori, 2008). Tuttavia, questa dizione non trova riscontro nella prassi liturgica in cui si continua a recitare la vecchia versione già citata, nonostante il fatto che da tale data siano state pubblicate diverse edizioni della Bibbia approvata dalla CEI (La Sacra Bibbia. AA.VV. CEI-UELCI, 2012; La Bibbia. Via, verità e vita. Nuova versione ufficiale della CEI. G. Ravasi, B. Maggioni. Edizioni San Paolo e Paoline Editoriale Libri, 2012 e 2016).
Nella Chiesa Valdese si recita: non esporci alla tentazione.
Il  Nuovo Testamento interconfessionale edito da LDC-ABU (Alleanza Biblica Universale, 2003) traduce con: fa' che non cadiamo nella tentazione.
Infatti, anche in altre lingue, oltre all'italiano, si hanno numerose proposte: non lasciarci nella, non lasciarci cadere nella, non lasciarci entrare nella, preservaci dalla tentazione.
In questo scritto si desidera proporre una traduzione che sia fedele al testo convergendo con le esigenze logico-psicologiche di cui sopra.
Per il testo originale greco si è fatto riferimento ad A. Merk, Novum Testamentum Graece et Latine, 1992, usando come vocabolario L. Rocci, Vocabolario Greco-Italiano, 1995.
Il testo greco recita: "kai mè eisenegkes emàs eis peirasmòn" la cui traduzione attualmente in vigore è, letteralmente, "e non indurre noi in tentazione".
"Eisenegkes" è la forma imperativa di "eisfero", parola composta da "eis" e "fero". "Eis" è ripetuto nella frase e significa : in, dentro, verso. "Eisfero" corrisponde all'italiano: portare, mettere in, introdurre. "Fero" indica, appunto, "portare" e la preposizione "eis": in, dentro, verso. Le preposizioni italiane "in", "dentro" vengono più frequentemente tradotte con "en".
"Peirasmòn" è l'accusativo di "peirasmòs" che significa anche tentazione, ma, soprattutto, in prima scelta: prova, esperienza.
"Kai" è la congiunzione "e"; "mè" significa "non";"emàs" è l'accusativo di "emoi": noi.
Come si può facilmente comprendere  la dizione in uso corrente "e non ci indurre in tentazione" non è erronea, mentre le versioni "non ci lasciare, non ci abbandonare, non ci lasciare cadere" e simili sono molto meno testuali, troppo libere: non corrispondono all'originale, anche se risultano in sintonia con il criterio logico-psicologico.
Traduzioni come: non ci mettere nella prova, non ci portare verso la prova, appaiono letteralmente assai più aderenti al testo originale rispettto a quelle proposte, compresa quella attualmente in vigore. In italiano moderno è più corretto dire: non ci mettere alla prova. Ad esempio, non chiederci come prova della nostra fede, qualcosa di simile a ciò che hai comandato ad Abramo: offrire in sacrificio suo figlio Isacco.
Una traduzione di questo tipo era stata individuata da R. Falsini (Famiglia Cristiana, 25/12/2005), ma rigettata come inaccettabile sul piano linguistico.
Al contrario, tale traduzìone non solo risulta più testuale, ma appare in sintonia con il criterio logico-psicologico: Dio non può essere parte attiva nella tentazione, ma può metterci alla prova (Deuteronomio 8, 2; 13, 4).
Possiamo riporre la nostra fede e speranza nelle parole di H. Lee (Và, metti una sentinella, 2015): "Il Signore non ti manda mai nulla di più doloroso di quello che puoi sopportare".
B. Marconcini afferma: "la permissione del male da parte di Dio è sempre in vista di un bene migliore" (Atti degli Apostoli, Commento esegetico-spirituale, 1994) e per questo : "i regali di Dio non sono sempre facili" (B. Chenu, Sette vite per Dio e per l'Algeria, 1996).

A completamento di quanto scritto appare utile una precisazione concernente il criterio logico-psicologico scomponendolo nei suoi due termini.
La logica, in questo caso, si limita a considerare le circostanze all'interno delle quali si verifica un determinato episodio narrato. Il contesto in cui si cala il racconto indirizza la traduzione in una direzione piuttosto che in un'altra.
La psicologia, attraverso il processo empatico (vedi Credere per ragione del 11/01/2017), permette di metterci nei panni di chi parla o scrive orientandoci nella comprensione del messaggio che intende trasmetterci.
Ad esempio, dove si parla delle tentazioni di Gesù nel deserto (Matteo 4, 1-11; Marco 1, 12-13; Luca 4, 8-13) il verbo "peirazo" è meglio tradotto con "tentare" piuttosto che "mettere alla prova".
All'inizio dell'episodio del buon samaritano (Luca 10, 25) si trova il verbo "ekpeirazo" in cui "ek" indica "fuori", "da", ma la parola risulta, comunque, sinonimo di "peirazo" che, in tale circostanza, è meglio tradotta con "mettere alla prova". L'edizione già citata LDC-ABU traduce più liberamente con "tendere un tranello".
Ne La Bibbia di Gerusalemme (1984), come in altre versioni (vedi bibliografia di Credere per ragione) si ha, nel primo caso, "tentare" e nel secondo "mettere alla prova".


mercoledì 22 marzo 2017

Il mondo delle psicoterapie è molto ampio e vario per cui appare assai difficile tracciare un rapporto con la spiritualità, la fede, la religione.
Da una posizione di chiusura nei confronti della religione di S. Freud (1856-1939) si va ad altre di apertura come, ad esempio, C.G. Jung (1875-1961), V. Frankl (1905-1977), J. Hillman (1926-2011).
Un approccio in ambito cristiano è rappresentato dal libro "Cristoterapia" (1975) di B.J. Tyrrell in cui l'autore cerca di delineare un percorso psicoterapeutico improntato a linee-guida di derivazione religiosa.
Un aspetto interessante per il tema trattato è rappresentato dalla "strategia di incoraggiamento" teorizzata da A. Adler (1970-1937) il quale sosteneva che ogni sintomo in ambito psicopatologico è: una protesta, la punizione per tale protesta ed una richiesta d'aiuto.
Il paziente, solitamente impaurito davanti alle responsabilità che la vita impone, attraverso la relazione empatica che si costruisce con lo psicoterapeuta, è incoraggiato a trovare e ricuperare dentro se stesso le potenzialità adatte per instaurare con gli altri rapporti di amicizia, collaborazione, aiuto reciproco.
Non si limita, evidentemente, a un generico "abbia coraggio" con tanto di pacca sulle spalle, ma è un processo che si sviluppa durante la psicoterapia la quale, in base a molteplici fattori, può durare più o meno a lungo. Non è legato a tecniche specifiche, ma all'evolversi della relazione terapeutica, quando questa si attui verso una direzione positiva.
Quanto detto ci ricorda le parole di Giovanni Paolo II "non abbiate paura" che si riferiscono ad un contesto diverso, certamente più ampio.
Il concetto di coraggio ci è riproposto da Papa Francesco che, nella Messa del 13 aprile 2015 (Osservatore Romano, 14/04/2015) ha ricordato il "coraggio della franchezza", in particolare quello di annunciare la Parola di Dio.
Le parole di Papa Francesco prenderebbero spunto dagli "Atti degli Apostoli" (3, 1-26). A seguito della guarigione di uno storpio da parte di San Pietro e San Giovanni, il primo dei due manifesta il coraggio di annunciare la Parola di Dio davanti alla folla che si era radunata.
Tali riflessioni tendono a ricercare analogie fra percorsi psicoterapeutici e religiosi.
Ad esempio, nella mia attività professionale, mi è capitato di incoraggiare pazienti depressi, affetti da sensi di colpa, sia credenti che atei, dicendo: "abbia più misericordia verso se stesso".
Similmente in soggetti depressi, ma in modo astioso nei confronti del mondo esterno, ho usato frasi come la seguente: "è importante avere il coraggio di cercare di comprendere le ragioni degli altri".
Il percorso terapeutico è assai più complesso e non può essere limitato a evidenziare singoli episodi che, avulsi dal contesto in cui si verificano, valgono soltanto a titolo di esempio.


  

mercoledì 15 marzo 2017

A questo punto del percorso di ricerca si desidera fare una precisazione concernente il saggio "Credere per ragione" del 11 gennaio 2017.
Per la versione italiana ci si è attenuti a "Parola del Signore. Il Nuovo Testamento" con il sottotitolo "In lingua corrente" (LDC-Alleanza Biblica Universale). Si tratta di una traduzione interconfessionale che nella Presentazione scrive: "la fedeltà non significa necessariamente traduzione letterale: per le moderne scienze del linguaggio, questo è un dato ormai acquisito".
Tradurre significa anche interpretare e questo è un fatto che la psicologia ha compreso già da tempo.
Tale versione in italiano appare di agevole comprensione e adatta al lettore moderno che, come viene precisato sempre nella Presentazione, si trova nella posizione di comprendere il testo così come era compreso dai primi lettori.
A titolo di esempio si vuole riportare la confessione di fede di San Pietro (Matteo 16,16; Marco 8, 29; Luca 9, 20) esposta nel saggio "Credere per ragione".
Nella versione del Nuovo testamento sopra citata, nei tre Vangeli Sinottici si trovano le parole "Messia" e "Cristo", mentre in altre traduzioni viene riportata o l'una o l'altra. Nell'originale greco del testo di A. Merk si ha "Cristo". Nel Vangelo di San Luca si trova l'espressione: "il Messia, il Cristo promesso da Dio", mentre nella versione greca si ha più semplicemente: "il Cristo di Dio".
Questa traduzione e diverse altre, compreso l'originale greco del Merk, sono riportate nella bibliografia del saggio a cui si rimanda.
Si ricorda ancora che la parola "Cristo" deriva dal greco e "Messia" dall'ebraico.
Un importante esempio riguardante i problemi di traduzione si trova nel Vangelo di San Marco che incomincia, nell'originale greco: "Inizio del Vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio".
Diverse edizioni come "La Bibbia di Gerusalemme" traducono testualmente. La versione cui facciamo riferimento (LDC-ABU) offre una traduzione più libera: "Questo è l'inizio del Vangelo, il lieto messaggio di Gesù, che è il Cristo e il Figlio di Dio".
Questa dizione permette di conservare il significato della parola Vangelo che deriva dal termine greco, foneticamente analogo, che significa "buona novella" nel senso di notizia, annuncio.
Non vogliamo spingerci oltre in questa "filosofia" della traduzione lasciandola agli esperti del settore, ma semplicemente osservare che tale problematica influisce sugli studi di psicologia a cui vogliamo tornare brevemente.

Appare utile richiamare la diversità nelle parole riportate dai tre Vangeli Sinottici che sono analizzate nel saggio già citato. Brevemente si vuole ricordare qui quanto è stato più estesamente sviluppato.
Il concetto fondamentale si basa sull'analisi psicologica del ricordo. Questo può andare incontro a trasformazioni nel tempo in relazione a vari fattori tra cui l'attuarsi di nuovi eventi.
La Risurrezione di Gesù ha permesso di gettare nuova luce su tanti episodi della Sua vita e delle Sue parole che erano rimasti oscuri e incompresi.
La riflessione singola e comunitaria degli apostoli e dei discepoli ha reso possibile una nuova comprensione del ricordo di avvenimenti precedenti.
In tale senso, secondo un'analisi psicologica, proprio le diversità nei racconti degli Evangelisti possono essere  interpretate come un criterio di credibilità e di veridicità di quanto narrato.

giovedì 9 marzo 2017

Nell'ambito della psicologia del profondo troviamo atteggiamenti assai diversificati nei confronti della religione.
Tra i fondatori di tale approccio alla conoscenza della personalità, si trova S. Freud (1856-1939) che considerava la religione una nevrosi collettiva, in modo assai simile a K. Marx (1818-1883) e F. Engels (1820-1885).
Opposta è l'opinione di C.G. Jung (1875-1961) che, soprattutto nella psicologia degli archetipi, dava ampio spazio all'atteggiamento religioso nel contribuire a forgiare la personalità del singolo individuo nel corso della sua storia soggettiva ed in quella umana.
Intermedia appare la posizione di A. Adler (1970-1937) che, sostanzialmente agnostico, senza dare particolare importanza alla religione, la riteneva, comunque, un fattore positivo per lo sviluppo di una personalità equilibrata.
La teoria elaborata da Adler, nota come Psicologia Individuale, presenta un aspetto molto interessante per quanto riguarda la religione, in particolare quella cristiana.
Egli sosteneva che l'essere umano è in conflitto con se stesso in quanto due opposte istanze si agitano nella sua mente in parte conscia, ma  prevalentemente inconscia.
Da un lato vi è il sentimento sociale che si declina nelle varie componenti dell'amore: intimità fisica, amicizia, empatia, collaborazione. Dall'altro vi è l'aspirazione alla superiorità che nella sua forma più intensa si trasforma in volontà di potenza: non solo ricerca del potere, ma anche odio, aggressività, violenza verbale e fisica individuale e di gruppo.
La teoria adleriana è assai più complessa rispetto a quanto esposto. Si può, comunque, osservare, che la ricerca psicologica può giungere a conclusioni simili a quanto appartiene al settore di competenza della religione: la storia del singolo individuo e di tutta l'umanità può essere interpretata come la lotta del bene contro il male, dell'amore contro l'odio, della collaborazione contro la competitività.

venerdì 3 marzo 2017

A. Maurois (1885-1967) affermava "credo perché non capisco", rimandando l'uomo di fede alle celebri parole di San Paolo circa la conoscenza che si può avere di se stessi in questa vita rispetto a quella futura "ora conosco parzialmente, allora conoscerò anch'io come sono conosciuto" (vedi aggiornamento del 19/02/2017).
La psicologia non può certo analizzare tale affermazione di San Paolo, ma può trarne spunto per alcune riflessioni.
M. Eliade (1907-1986), uno dei più autorevoli studiosi di storia delle religioni, ha osservato che nelle popolazioni cosiddette "primitive", a struttura di tipo tribale, il mondo viene conosciuto in un certo qual senso in modo "sacro", più precisamente, secondo modalità animistiche. Non solo gli animali, le piante, ma anche le cose hanno una propria anima, una intenzionalità soggettiva, interiore e su questa base viene costruita la loro conoscenza molto affine al credere non razionale, ma affettivo. Gli oggetti in generale non esistono per un "perché", ma per un "affinché", non per una causa, ma per un fine.
La conoscenza "profana" (davanti al sacro) è giunta solo dopo nella storia umana, nelle società più evolute, con l'età della ragione e della scienza. Già nell'antica Grecia si distingueva tra mitologia e filosofia.
Analogamente, studiosi della psicologia dell'età infantile come J. Piaget (1896-1980) e R. Spitz (1887-1974), partendo da punti di vista diversi, con metodologie differenti, sono giunti alla conclusione che il bambino "investe" affettivamente il mondo prima di conoscerlo. Affermava A. Camus (1913-1960) "noi prendiamo l'abitudine di vivere prima di acquistare quella di pensare".
In altre parole, ad esempio, il bambino conosce la propria mamma prima di avere il concetto di mamma.  La prima forma di conoscenza è, quindi, basata su un "credo" che è molto più affine alla fede che alla ragione.
Da queste osservazioni emerge che la ricerca psicologica può arricchirsi attingendo da diverse fonti quali la letteratura in generale e quella Sacra in particolare.
J. Hillman (1926-2011) ha evidenziato numerose analogie fra psicoterapia, narrazione letteraria e religione. La prima può essere intesa come una storia, la propria storia di cui il paziente ha smarrito la trama, che viene rintracciata e riscritta a quattro mani insieme allo psicoterapeuta.
Questo percorso, sempre secondo Hillman, presenta profonde analogie con un cammino spirituale in ambito religioso. Nel primo si attua una ricerca di se stessi, mentre nel secondo dell'umana relazione con Dio.
Uno dei fini perseguiti dalla psicoterapia è mettere in relazione il paziente con la parte più sana della propria personalità per contrastare la parte malata. La prima è maggiormente rivolta alla collaborazione con il prossimo mentre la seconda, più egoistica e/o narcisistica, è rivolta alla ricerca della supremazia sugli altri (Adler 1870-1937).
In conclusione, l'analogia consiste nella ricerca della parte buona di sé, del bene in ambito morale.

mercoledì 1 marzo 2017

"Vita eterna" è un concetto relazionale: mediante la relazione con Colui che è vivente anche l'uomo acquista la vita vera.
Benedetto XVI

domenica 19 febbraio 2017

Al presente vediamo mediante specchio, in maniera enigmatica. Allora vedremo invece faccia a faccia. Ora conosco parzialmente, allora conoscerò anch'io come sono conosciuto.
San Paolo, 1Corinzi 13, 12

venerdì 10 febbraio 2017

Ricordi di Dio

J. Polkinghorne, professore di fisica matematica e teologo anglicano, è uno studioso dei rapporti fra religione e scienza. Nel suo libro "Credere in Dio nell'età della scienza" (1998) afferma che nella vita dopo la morte saremo tutti ricordi di Dio. Tale sua osservazione non viene sviluppata ulteriormente per cui rimane una metafora su cui si possono fare alcune riflessioni in ambito psicologico.
Il ricordo è un atto di pensiero, quindi, immateriale. Tuttavia, ricordare significa rievocare episodi della propria vita in quanto persone fisiche.
In questo senso il ricordo può fornire una metafora riguardo alla vita nell'Aldilà e della risurrezione.
Nella teologia cristiana in generale ed in quella cattolica in particolare, si trova la concezione della doppia risurrezione: quella dell'anima subito dopo la morte e quella del corpo alla fine dei giorni.
Nella discussione a proposito della risurrezione (Matteo 22, 23-33; Marco 12, 18-27; Luca 20, 27-40) Gesù afferma che quelli che risorgeranno saranno "come gli angeli del cielo" (Matteo e Marco) e "uguali agli angeli" (Luca).
Angelo deriva dal greco e significa messaggero il quale si identifica sostanzialmente con il messaggio portato. Nel caso della Bibbia questo è la Parola di Dio, immateriale in quanto esprime un pensiero, ma fisica dal momento che viene pronunciata ed udita da un essere umano, come nel caso dell'Annunciazione.
Tali considerazioni rimangono limitate all'applicazione della psicologia allo studio della religione e non possono avere implicazioni teologiche.

giovedì 9 febbraio 2017

Uno dei principali filosofi italiani contemporanei U. Galimberti (2009) propone una suggestiva ipotesi sull'origine della parola "amore", forse non esente da critiche da parte degli studiosi di etimologia in quanto sarebbero coinvolte due lingue, il latino ed il greco.
Comunque sia, ci piace pensare che "amore" abbia origine da "a-mors". "A", in greco "alfa", posta all'origine di alcune parole, comporta un significato privativo, cioè di negazione: "non". "Mors" significa in latino "morte". Nel suo insieme "amore" significa "non-morte", la vita che vince la morte.
In questo senso, il dantesco "Amor che move il sole e l'altre stelle", tramite la Risurrezione di Gesù, trionfa sulla morte, come attestato dai Vangeli. La morte consiste, allora, nell' Amore Eterno.

sabato 4 febbraio 2017

A. Vergote, (1921-2013), uno dei più autorevoli studiosi di psicologia della religione, ha osservato che l'atteggiamento religioso attua una sintesi tra il divenire personale e la solidarietà sociale.
Un approfondimento psicologico di questi temi può rivolgersi anche ad altre discipline scientifiche come l'etimologia, lo studio dell'origine delle parole.
Religione deriva dal latino "religo": legare insieme, unire.
Il termine esistenza deriva da exsisto: stare fuori, mostrarsi, divenire, sorgere, anche nel senso di vivere al di fuori di se stessi, con il proprio prossimo, essere legati insieme gli uni agli altri.
Un atteggiamento religioso, non necessariamente inteso come adesione ad una religione particolare, ma nel significato di una propensione verso la spiritualità, è stato considerato da A. Adler (1870-1937), uno dei fondatori della psicoterapia del profondo, come una componente importante del sentimento sociale che, nella sua teoria, rappresenta un'istanza fondamentale della personalità umana: il tramite tra la persona e la società.
Appare opportuno ricordare che Adler era, se non proprio ateo, per lo meno agnostico.