Nel percorso
psicoterapeutico è assai probabile che emerga la questione
dell'appartenenza ad una fede religiosa o, invece, di un
atteggiamento ateo o agnostico.
Ciò può avvenire nel
tempo in modo sporadico e frammentario, oppure la domanda può esser
posta dal paziente al terapeuta in modo improvviso ed inaspettato.
L'opposto non dovrebbe
mai accadere a meno che si ponga il sospetto che l'atteggiamento
religioso, o la sua negazione, incida in qualche modo sulla
sintomatologia riferita.
Tale domanda può essere
posta a terapia già avviata e ciò permette al curante di modulare
la propria risposta in base alle conoscenze che ha del paziente.
In altri casi può essere
chiesta all'inizio del trattamento.
In tale situazione si può
domandare al paziente il motivo di tale quesito, ma quale che sia la
risposta, è opportuno esplicitare la propria opinione con sincerità.
Modulare la risposta,
come si accennava in precedenza, può essere importante per non
creare possibili barriere che ostacolino il dialogo. Sono, ad
esempio, da evitare frasi nette come “sono cattolico osservante”
o “ateo convinto”.
Appare più opportuno,
nel caso di un credente, fornire risposte più flessibili del tipo
“sono cristiano, o meglio, cerco di essere cristiano, cioè di
seguire il sentiero indicato dal Vangelo, anche se la mia fede
presenta incertezze e dubbi”.
Tale formulazione, oltre
a essere veritiera in ogni circostanza in quanto il dubbio non
annulla la fede e, come scrive H. Küng
(2012) “la vera critica non annienta la fede, la vera fede non
ostacola la critica”, presenta un atteggiamento moderato che non si
oppone al dialogo, anzi lo può favorire.
Quanto
detto è solo un esempio pratico, rappresenta un'opinione maturata in
circa quattro decenni di attività psicoterapeutica.
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