Da diversi anni e da più parti si chiede una revisione della frase molto discussa del Padre Nostro: e non ci indurre in tentazione.
Si osserva che Dio, Sommo Bene, non può essere parte attiva nell'indurre l'uomo in tentazione.
Numerose iniziative religiose in molti paesi cercano di elaborare traduzioni che siano in maggiore sintonia logico-psicologica con il Nuovo Testamento dove Dio è presentato come misericordia, perdono, amore.
La CEI (Conferenza Episcopale Italiana) ha recepito tale esigenza ed ha approvato una nuova traduzione della Bibbia (L'Osservatore Romano, 25/05/2008) in cui si legge: "non abbandonarci alla tentazione" (La Bibbia, CEI, G. Betori, 2008). Tuttavia, questa dizione non trova riscontro nella prassi liturgica in cui si continua a recitare la vecchia versione già citata, nonostante il fatto che da tale data siano state pubblicate diverse edizioni della Bibbia approvata dalla CEI (La Sacra Bibbia. AA.VV. CEI-UELCI, 2012; La Bibbia. Via, verità e vita. Nuova versione ufficiale della CEI. G. Ravasi, B. Maggioni. Edizioni San Paolo e Paoline Editoriale Libri, 2012 e 2016).
Nella Chiesa Valdese si recita: non esporci alla tentazione.
Il Nuovo Testamento interconfessionale edito da LDC-ABU (Alleanza Biblica Universale, 2003) traduce con: fa' che non cadiamo nella tentazione.
Infatti, anche in altre lingue, oltre all'italiano, si hanno numerose proposte: non lasciarci nella, non lasciarci cadere nella, non lasciarci entrare nella, preservaci dalla tentazione.
In questo scritto si desidera proporre una traduzione che sia fedele al testo convergendo con le esigenze logico-psicologiche di cui sopra.
Per il testo originale greco si è fatto riferimento ad A. Merk, Novum Testamentum Graece et Latine, 1992, usando come vocabolario L. Rocci, Vocabolario Greco-Italiano, 1995.
Il testo greco recita: "kai mè eisenegkes emàs eis peirasmòn" la cui traduzione attualmente in vigore è, letteralmente, "e non indurre noi in tentazione".
"Eisenegkes" è la forma imperativa di "eisfero", parola composta da "eis" e "fero". "Eis" è ripetuto nella frase e significa : in, dentro, verso. "Eisfero" corrisponde all'italiano: portare, mettere in, introdurre. "Fero" indica, appunto, "portare" e la preposizione "eis": in, dentro, verso. Le preposizioni italiane "in", "dentro" vengono più frequentemente tradotte con "en".
"Peirasmòn" è l'accusativo di "peirasmòs" che significa anche tentazione, ma, soprattutto, in prima scelta: prova, esperienza.
"Kai" è la congiunzione "e"; "mè" significa "non";"emàs" è l'accusativo di "emoi": noi.
Come si può facilmente comprendere la dizione in uso corrente "e non ci indurre in tentazione" non è erronea, mentre le versioni "non ci lasciare, non ci abbandonare, non ci lasciare cadere" e simili sono molto meno testuali, troppo libere: non corrispondono all'originale, anche se risultano in sintonia con il criterio logico-psicologico.
Traduzioni come: non ci mettere nella prova, non ci portare verso la prova, appaiono letteralmente assai più aderenti al testo originale rispettto a quelle proposte, compresa quella attualmente in vigore. In italiano moderno è più corretto dire: non ci mettere alla prova. Ad esempio, non chiederci come prova della nostra fede, qualcosa di simile a ciò che hai comandato ad Abramo: offrire in sacrificio suo figlio Isacco.
Una traduzione di questo tipo era stata individuata da R. Falsini (Famiglia Cristiana, 25/12/2005), ma rigettata come inaccettabile sul piano linguistico.
Al contrario, tale traduzìone non solo risulta più testuale, ma appare in sintonia con il criterio logico-psicologico: Dio non può essere parte attiva nella tentazione, ma può metterci alla prova (Deuteronomio 8, 2; 13, 4).
Possiamo riporre la nostra fede e speranza nelle parole di H. Lee (Và, metti una sentinella, 2015): "Il Signore non ti manda mai nulla di più doloroso di quello che puoi sopportare".
B. Marconcini afferma: "la permissione del male da parte di Dio è sempre in vista di un bene migliore" (Atti degli Apostoli, Commento esegetico-spirituale, 1994) e per questo : "i regali di Dio non sono sempre facili" (B. Chenu, Sette vite per Dio e per l'Algeria, 1996).
A completamento di quanto scritto appare utile una precisazione concernente il criterio logico-psicologico scomponendolo nei suoi due termini.
La logica, in questo caso, si limita a considerare le circostanze all'interno delle quali si verifica un determinato episodio narrato. Il contesto in cui si cala il racconto indirizza la traduzione in una direzione piuttosto che in un'altra.
La psicologia, attraverso il processo empatico (vedi Credere per ragione del 11/01/2017), permette di metterci nei panni di chi parla o scrive orientandoci nella comprensione del messaggio che intende trasmetterci.
Ad esempio, dove si parla delle tentazioni di Gesù nel deserto (Matteo 4, 1-11; Marco 1, 12-13; Luca 4, 8-13) il verbo "peirazo" è meglio tradotto con "tentare" piuttosto che "mettere alla prova".
All'inizio dell'episodio del buon samaritano (Luca 10, 25) si trova il verbo "ekpeirazo" in cui "ek" indica "fuori", "da", ma la parola risulta, comunque, sinonimo di "peirazo" che, in tale circostanza, è meglio tradotta con "mettere alla prova". L'edizione già citata LDC-ABU traduce più liberamente con "tendere un tranello".
Ne La Bibbia di Gerusalemme (1984), come in altre versioni (vedi bibliografia di Credere per ragione) si ha, nel primo caso, "tentare" e nel secondo "mettere alla prova".
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mercoledì 29 marzo 2017
mercoledì 22 marzo 2017
Il mondo delle psicoterapie è molto ampio e vario per cui appare assai difficile tracciare un rapporto con la spiritualità, la fede, la religione.
Da una posizione di chiusura nei confronti della religione di S. Freud (1856-1939) si va ad altre di apertura come, ad esempio, C.G. Jung (1875-1961), V. Frankl (1905-1977), J. Hillman (1926-2011).
Un approccio in ambito cristiano è rappresentato dal libro "Cristoterapia" (1975) di B.J. Tyrrell in cui l'autore cerca di delineare un percorso psicoterapeutico improntato a linee-guida di derivazione religiosa.
Un aspetto interessante per il tema trattato è rappresentato dalla "strategia di incoraggiamento" teorizzata da A. Adler (1970-1937) il quale sosteneva che ogni sintomo in ambito psicopatologico è: una protesta, la punizione per tale protesta ed una richiesta d'aiuto.
Il paziente, solitamente impaurito davanti alle responsabilità che la vita impone, attraverso la relazione empatica che si costruisce con lo psicoterapeuta, è incoraggiato a trovare e ricuperare dentro se stesso le potenzialità adatte per instaurare con gli altri rapporti di amicizia, collaborazione, aiuto reciproco.
Non si limita, evidentemente, a un generico "abbia coraggio" con tanto di pacca sulle spalle, ma è un processo che si sviluppa durante la psicoterapia la quale, in base a molteplici fattori, può durare più o meno a lungo. Non è legato a tecniche specifiche, ma all'evolversi della relazione terapeutica, quando questa si attui verso una direzione positiva.
Quanto detto ci ricorda le parole di Giovanni Paolo II "non abbiate paura" che si riferiscono ad un contesto diverso, certamente più ampio.
Il concetto di coraggio ci è riproposto da Papa Francesco che, nella Messa del 13 aprile 2015 (Osservatore Romano, 14/04/2015) ha ricordato il "coraggio della franchezza", in particolare quello di annunciare la Parola di Dio.
Le parole di Papa Francesco prenderebbero spunto dagli "Atti degli Apostoli" (3, 1-26). A seguito della guarigione di uno storpio da parte di San Pietro e San Giovanni, il primo dei due manifesta il coraggio di annunciare la Parola di Dio davanti alla folla che si era radunata.
Tali riflessioni tendono a ricercare analogie fra percorsi psicoterapeutici e religiosi.
Ad esempio, nella mia attività professionale, mi è capitato di incoraggiare pazienti depressi, affetti da sensi di colpa, sia credenti che atei, dicendo: "abbia più misericordia verso se stesso".
Similmente in soggetti depressi, ma in modo astioso nei confronti del mondo esterno, ho usato frasi come la seguente: "è importante avere il coraggio di cercare di comprendere le ragioni degli altri".
Il percorso terapeutico è assai più complesso e non può essere limitato a evidenziare singoli episodi che, avulsi dal contesto in cui si verificano, valgono soltanto a titolo di esempio.
Da una posizione di chiusura nei confronti della religione di S. Freud (1856-1939) si va ad altre di apertura come, ad esempio, C.G. Jung (1875-1961), V. Frankl (1905-1977), J. Hillman (1926-2011).
Un approccio in ambito cristiano è rappresentato dal libro "Cristoterapia" (1975) di B.J. Tyrrell in cui l'autore cerca di delineare un percorso psicoterapeutico improntato a linee-guida di derivazione religiosa.
Un aspetto interessante per il tema trattato è rappresentato dalla "strategia di incoraggiamento" teorizzata da A. Adler (1970-1937) il quale sosteneva che ogni sintomo in ambito psicopatologico è: una protesta, la punizione per tale protesta ed una richiesta d'aiuto.
Il paziente, solitamente impaurito davanti alle responsabilità che la vita impone, attraverso la relazione empatica che si costruisce con lo psicoterapeuta, è incoraggiato a trovare e ricuperare dentro se stesso le potenzialità adatte per instaurare con gli altri rapporti di amicizia, collaborazione, aiuto reciproco.
Non si limita, evidentemente, a un generico "abbia coraggio" con tanto di pacca sulle spalle, ma è un processo che si sviluppa durante la psicoterapia la quale, in base a molteplici fattori, può durare più o meno a lungo. Non è legato a tecniche specifiche, ma all'evolversi della relazione terapeutica, quando questa si attui verso una direzione positiva.
Quanto detto ci ricorda le parole di Giovanni Paolo II "non abbiate paura" che si riferiscono ad un contesto diverso, certamente più ampio.
Il concetto di coraggio ci è riproposto da Papa Francesco che, nella Messa del 13 aprile 2015 (Osservatore Romano, 14/04/2015) ha ricordato il "coraggio della franchezza", in particolare quello di annunciare la Parola di Dio.
Le parole di Papa Francesco prenderebbero spunto dagli "Atti degli Apostoli" (3, 1-26). A seguito della guarigione di uno storpio da parte di San Pietro e San Giovanni, il primo dei due manifesta il coraggio di annunciare la Parola di Dio davanti alla folla che si era radunata.
Tali riflessioni tendono a ricercare analogie fra percorsi psicoterapeutici e religiosi.
Ad esempio, nella mia attività professionale, mi è capitato di incoraggiare pazienti depressi, affetti da sensi di colpa, sia credenti che atei, dicendo: "abbia più misericordia verso se stesso".
Similmente in soggetti depressi, ma in modo astioso nei confronti del mondo esterno, ho usato frasi come la seguente: "è importante avere il coraggio di cercare di comprendere le ragioni degli altri".
Il percorso terapeutico è assai più complesso e non può essere limitato a evidenziare singoli episodi che, avulsi dal contesto in cui si verificano, valgono soltanto a titolo di esempio.
mercoledì 15 marzo 2017
A questo punto del percorso di ricerca si desidera fare una precisazione concernente il saggio "Credere per ragione" del 11 gennaio 2017.
Per la versione italiana ci si è attenuti a "Parola del Signore. Il Nuovo Testamento" con il sottotitolo "In lingua corrente" (LDC-Alleanza Biblica Universale). Si tratta di una traduzione interconfessionale che nella Presentazione scrive: "la fedeltà non significa necessariamente traduzione letterale: per le moderne scienze del linguaggio, questo è un dato ormai acquisito".
Tradurre significa anche interpretare e questo è un fatto che la psicologia ha compreso già da tempo.
Tale versione in italiano appare di agevole comprensione e adatta al lettore moderno che, come viene precisato sempre nella Presentazione, si trova nella posizione di comprendere il testo così come era compreso dai primi lettori.
A titolo di esempio si vuole riportare la confessione di fede di San Pietro (Matteo 16,16; Marco 8, 29; Luca 9, 20) esposta nel saggio "Credere per ragione".
Nella versione del Nuovo testamento sopra citata, nei tre Vangeli Sinottici si trovano le parole "Messia" e "Cristo", mentre in altre traduzioni viene riportata o l'una o l'altra. Nell'originale greco del testo di A. Merk si ha "Cristo". Nel Vangelo di San Luca si trova l'espressione: "il Messia, il Cristo promesso da Dio", mentre nella versione greca si ha più semplicemente: "il Cristo di Dio".
Questa traduzione e diverse altre, compreso l'originale greco del Merk, sono riportate nella bibliografia del saggio a cui si rimanda.
Si ricorda ancora che la parola "Cristo" deriva dal greco e "Messia" dall'ebraico.
Un importante esempio riguardante i problemi di traduzione si trova nel Vangelo di San Marco che incomincia, nell'originale greco: "Inizio del Vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio".
Diverse edizioni come "La Bibbia di Gerusalemme" traducono testualmente. La versione cui facciamo riferimento (LDC-ABU) offre una traduzione più libera: "Questo è l'inizio del Vangelo, il lieto messaggio di Gesù, che è il Cristo e il Figlio di Dio".
Questa dizione permette di conservare il significato della parola Vangelo che deriva dal termine greco, foneticamente analogo, che significa "buona novella" nel senso di notizia, annuncio.
Non vogliamo spingerci oltre in questa "filosofia" della traduzione lasciandola agli esperti del settore, ma semplicemente osservare che tale problematica influisce sugli studi di psicologia a cui vogliamo tornare brevemente.
Appare utile richiamare la diversità nelle parole riportate dai tre Vangeli Sinottici che sono analizzate nel saggio già citato. Brevemente si vuole ricordare qui quanto è stato più estesamente sviluppato.
Il concetto fondamentale si basa sull'analisi psicologica del ricordo. Questo può andare incontro a trasformazioni nel tempo in relazione a vari fattori tra cui l'attuarsi di nuovi eventi.
La Risurrezione di Gesù ha permesso di gettare nuova luce su tanti episodi della Sua vita e delle Sue parole che erano rimasti oscuri e incompresi.
La riflessione singola e comunitaria degli apostoli e dei discepoli ha reso possibile una nuova comprensione del ricordo di avvenimenti precedenti.
In tale senso, secondo un'analisi psicologica, proprio le diversità nei racconti degli Evangelisti possono essere interpretate come un criterio di credibilità e di veridicità di quanto narrato.
Per la versione italiana ci si è attenuti a "Parola del Signore. Il Nuovo Testamento" con il sottotitolo "In lingua corrente" (LDC-Alleanza Biblica Universale). Si tratta di una traduzione interconfessionale che nella Presentazione scrive: "la fedeltà non significa necessariamente traduzione letterale: per le moderne scienze del linguaggio, questo è un dato ormai acquisito".
Tradurre significa anche interpretare e questo è un fatto che la psicologia ha compreso già da tempo.
Tale versione in italiano appare di agevole comprensione e adatta al lettore moderno che, come viene precisato sempre nella Presentazione, si trova nella posizione di comprendere il testo così come era compreso dai primi lettori.
A titolo di esempio si vuole riportare la confessione di fede di San Pietro (Matteo 16,16; Marco 8, 29; Luca 9, 20) esposta nel saggio "Credere per ragione".
Nella versione del Nuovo testamento sopra citata, nei tre Vangeli Sinottici si trovano le parole "Messia" e "Cristo", mentre in altre traduzioni viene riportata o l'una o l'altra. Nell'originale greco del testo di A. Merk si ha "Cristo". Nel Vangelo di San Luca si trova l'espressione: "il Messia, il Cristo promesso da Dio", mentre nella versione greca si ha più semplicemente: "il Cristo di Dio".
Questa traduzione e diverse altre, compreso l'originale greco del Merk, sono riportate nella bibliografia del saggio a cui si rimanda.
Si ricorda ancora che la parola "Cristo" deriva dal greco e "Messia" dall'ebraico.
Un importante esempio riguardante i problemi di traduzione si trova nel Vangelo di San Marco che incomincia, nell'originale greco: "Inizio del Vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio".
Diverse edizioni come "La Bibbia di Gerusalemme" traducono testualmente. La versione cui facciamo riferimento (LDC-ABU) offre una traduzione più libera: "Questo è l'inizio del Vangelo, il lieto messaggio di Gesù, che è il Cristo e il Figlio di Dio".
Questa dizione permette di conservare il significato della parola Vangelo che deriva dal termine greco, foneticamente analogo, che significa "buona novella" nel senso di notizia, annuncio.
Non vogliamo spingerci oltre in questa "filosofia" della traduzione lasciandola agli esperti del settore, ma semplicemente osservare che tale problematica influisce sugli studi di psicologia a cui vogliamo tornare brevemente.
Appare utile richiamare la diversità nelle parole riportate dai tre Vangeli Sinottici che sono analizzate nel saggio già citato. Brevemente si vuole ricordare qui quanto è stato più estesamente sviluppato.
Il concetto fondamentale si basa sull'analisi psicologica del ricordo. Questo può andare incontro a trasformazioni nel tempo in relazione a vari fattori tra cui l'attuarsi di nuovi eventi.
La Risurrezione di Gesù ha permesso di gettare nuova luce su tanti episodi della Sua vita e delle Sue parole che erano rimasti oscuri e incompresi.
La riflessione singola e comunitaria degli apostoli e dei discepoli ha reso possibile una nuova comprensione del ricordo di avvenimenti precedenti.
In tale senso, secondo un'analisi psicologica, proprio le diversità nei racconti degli Evangelisti possono essere interpretate come un criterio di credibilità e di veridicità di quanto narrato.
giovedì 9 marzo 2017
Nell'ambito della psicologia del profondo troviamo atteggiamenti assai diversificati nei confronti della religione.
Tra i fondatori di tale approccio alla conoscenza della personalità, si trova S. Freud (1856-1939) che considerava la religione una nevrosi collettiva, in modo assai simile a K. Marx (1818-1883) e F. Engels (1820-1885).
Opposta è l'opinione di C.G. Jung (1875-1961) che, soprattutto nella psicologia degli archetipi, dava ampio spazio all'atteggiamento religioso nel contribuire a forgiare la personalità del singolo individuo nel corso della sua storia soggettiva ed in quella umana.
Intermedia appare la posizione di A. Adler (1970-1937) che, sostanzialmente agnostico, senza dare particolare importanza alla religione, la riteneva, comunque, un fattore positivo per lo sviluppo di una personalità equilibrata.
La teoria elaborata da Adler, nota come Psicologia Individuale, presenta un aspetto molto interessante per quanto riguarda la religione, in particolare quella cristiana.
Egli sosteneva che l'essere umano è in conflitto con se stesso in quanto due opposte istanze si agitano nella sua mente in parte conscia, ma prevalentemente inconscia.
Da un lato vi è il sentimento sociale che si declina nelle varie componenti dell'amore: intimità fisica, amicizia, empatia, collaborazione. Dall'altro vi è l'aspirazione alla superiorità che nella sua forma più intensa si trasforma in volontà di potenza: non solo ricerca del potere, ma anche odio, aggressività, violenza verbale e fisica individuale e di gruppo.
La teoria adleriana è assai più complessa rispetto a quanto esposto. Si può, comunque, osservare, che la ricerca psicologica può giungere a conclusioni simili a quanto appartiene al settore di competenza della religione: la storia del singolo individuo e di tutta l'umanità può essere interpretata come la lotta del bene contro il male, dell'amore contro l'odio, della collaborazione contro la competitività.
Tra i fondatori di tale approccio alla conoscenza della personalità, si trova S. Freud (1856-1939) che considerava la religione una nevrosi collettiva, in modo assai simile a K. Marx (1818-1883) e F. Engels (1820-1885).
Opposta è l'opinione di C.G. Jung (1875-1961) che, soprattutto nella psicologia degli archetipi, dava ampio spazio all'atteggiamento religioso nel contribuire a forgiare la personalità del singolo individuo nel corso della sua storia soggettiva ed in quella umana.
Intermedia appare la posizione di A. Adler (1970-1937) che, sostanzialmente agnostico, senza dare particolare importanza alla religione, la riteneva, comunque, un fattore positivo per lo sviluppo di una personalità equilibrata.
La teoria elaborata da Adler, nota come Psicologia Individuale, presenta un aspetto molto interessante per quanto riguarda la religione, in particolare quella cristiana.
Egli sosteneva che l'essere umano è in conflitto con se stesso in quanto due opposte istanze si agitano nella sua mente in parte conscia, ma prevalentemente inconscia.
Da un lato vi è il sentimento sociale che si declina nelle varie componenti dell'amore: intimità fisica, amicizia, empatia, collaborazione. Dall'altro vi è l'aspirazione alla superiorità che nella sua forma più intensa si trasforma in volontà di potenza: non solo ricerca del potere, ma anche odio, aggressività, violenza verbale e fisica individuale e di gruppo.
La teoria adleriana è assai più complessa rispetto a quanto esposto. Si può, comunque, osservare, che la ricerca psicologica può giungere a conclusioni simili a quanto appartiene al settore di competenza della religione: la storia del singolo individuo e di tutta l'umanità può essere interpretata come la lotta del bene contro il male, dell'amore contro l'odio, della collaborazione contro la competitività.
venerdì 3 marzo 2017
A. Maurois (1885-1967) affermava "credo perché non capisco", rimandando l'uomo di fede alle celebri parole di San Paolo circa la conoscenza che si può avere di se stessi in questa vita rispetto a quella futura "ora conosco parzialmente, allora conoscerò anch'io come sono conosciuto" (vedi aggiornamento del 19/02/2017).
La psicologia non può certo analizzare tale affermazione di San Paolo, ma può trarne spunto per alcune riflessioni.
M. Eliade (1907-1986), uno dei più autorevoli studiosi di storia delle religioni, ha osservato che nelle popolazioni cosiddette "primitive", a struttura di tipo tribale, il mondo viene conosciuto in un certo qual senso in modo "sacro", più precisamente, secondo modalità animistiche. Non solo gli animali, le piante, ma anche le cose hanno una propria anima, una intenzionalità soggettiva, interiore e su questa base viene costruita la loro conoscenza molto affine al credere non razionale, ma affettivo. Gli oggetti in generale non esistono per un "perché", ma per un "affinché", non per una causa, ma per un fine.
La conoscenza "profana" (davanti al sacro) è giunta solo dopo nella storia umana, nelle società più evolute, con l'età della ragione e della scienza. Già nell'antica Grecia si distingueva tra mitologia e filosofia.
Analogamente, studiosi della psicologia dell'età infantile come J. Piaget (1896-1980) e R. Spitz (1887-1974), partendo da punti di vista diversi, con metodologie differenti, sono giunti alla conclusione che il bambino "investe" affettivamente il mondo prima di conoscerlo. Affermava A. Camus (1913-1960) "noi prendiamo l'abitudine di vivere prima di acquistare quella di pensare".
In altre parole, ad esempio, il bambino conosce la propria mamma prima di avere il concetto di mamma. La prima forma di conoscenza è, quindi, basata su un "credo" che è molto più affine alla fede che alla ragione.
Da queste osservazioni emerge che la ricerca psicologica può arricchirsi attingendo da diverse fonti quali la letteratura in generale e quella Sacra in particolare.
J. Hillman (1926-2011) ha evidenziato numerose analogie fra psicoterapia, narrazione letteraria e religione. La prima può essere intesa come una storia, la propria storia di cui il paziente ha smarrito la trama, che viene rintracciata e riscritta a quattro mani insieme allo psicoterapeuta.
Questo percorso, sempre secondo Hillman, presenta profonde analogie con un cammino spirituale in ambito religioso. Nel primo si attua una ricerca di se stessi, mentre nel secondo dell'umana relazione con Dio.
Uno dei fini perseguiti dalla psicoterapia è mettere in relazione il paziente con la parte più sana della propria personalità per contrastare la parte malata. La prima è maggiormente rivolta alla collaborazione con il prossimo mentre la seconda, più egoistica e/o narcisistica, è rivolta alla ricerca della supremazia sugli altri (Adler 1870-1937).
In conclusione, l'analogia consiste nella ricerca della parte buona di sé, del bene in ambito morale.
La psicologia non può certo analizzare tale affermazione di San Paolo, ma può trarne spunto per alcune riflessioni.
M. Eliade (1907-1986), uno dei più autorevoli studiosi di storia delle religioni, ha osservato che nelle popolazioni cosiddette "primitive", a struttura di tipo tribale, il mondo viene conosciuto in un certo qual senso in modo "sacro", più precisamente, secondo modalità animistiche. Non solo gli animali, le piante, ma anche le cose hanno una propria anima, una intenzionalità soggettiva, interiore e su questa base viene costruita la loro conoscenza molto affine al credere non razionale, ma affettivo. Gli oggetti in generale non esistono per un "perché", ma per un "affinché", non per una causa, ma per un fine.
La conoscenza "profana" (davanti al sacro) è giunta solo dopo nella storia umana, nelle società più evolute, con l'età della ragione e della scienza. Già nell'antica Grecia si distingueva tra mitologia e filosofia.
Analogamente, studiosi della psicologia dell'età infantile come J. Piaget (1896-1980) e R. Spitz (1887-1974), partendo da punti di vista diversi, con metodologie differenti, sono giunti alla conclusione che il bambino "investe" affettivamente il mondo prima di conoscerlo. Affermava A. Camus (1913-1960) "noi prendiamo l'abitudine di vivere prima di acquistare quella di pensare".
In altre parole, ad esempio, il bambino conosce la propria mamma prima di avere il concetto di mamma. La prima forma di conoscenza è, quindi, basata su un "credo" che è molto più affine alla fede che alla ragione.
Da queste osservazioni emerge che la ricerca psicologica può arricchirsi attingendo da diverse fonti quali la letteratura in generale e quella Sacra in particolare.
J. Hillman (1926-2011) ha evidenziato numerose analogie fra psicoterapia, narrazione letteraria e religione. La prima può essere intesa come una storia, la propria storia di cui il paziente ha smarrito la trama, che viene rintracciata e riscritta a quattro mani insieme allo psicoterapeuta.
Questo percorso, sempre secondo Hillman, presenta profonde analogie con un cammino spirituale in ambito religioso. Nel primo si attua una ricerca di se stessi, mentre nel secondo dell'umana relazione con Dio.
Uno dei fini perseguiti dalla psicoterapia è mettere in relazione il paziente con la parte più sana della propria personalità per contrastare la parte malata. La prima è maggiormente rivolta alla collaborazione con il prossimo mentre la seconda, più egoistica e/o narcisistica, è rivolta alla ricerca della supremazia sugli altri (Adler 1870-1937).
In conclusione, l'analogia consiste nella ricerca della parte buona di sé, del bene in ambito morale.
mercoledì 1 marzo 2017
"Vita eterna" è un concetto relazionale: mediante la relazione con Colui che è vivente anche l'uomo acquista la vita vera.
Benedetto XVI
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