La carità è la poesia del cielo portata sulla terra.
Don Primo Mazzolari, 1953
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lunedì 31 dicembre 2018
lunedì 3 dicembre 2018
L'arresto nel Getsemani
Nell'episodio
dell'arresto di Gesù vi è un particolare, descritto dai quattro
evangelisti, che suscita qualche perplessità in una prospettiva di
approfondimento storico-psicologico (Matteo 26, 51-52; Marco 14, 47;
Luca 22, 50-51; Giovanni 18, 10-11).
Nelle narrazioni, che
differiscono per pochi particolari, uno dei discepoli colpì con la
spada staccando un orecchio di un uomo facente parte del manipolo di
servi e soldati inviati dalle autorità religiose ebraiche per
arrestare Gesù. Il Vangelo di San Marco è il più coinciso, mentre
in quello di San Giovanni viene precisato che tale discepolo era San
Pietro e la vittima si chiamava Malco, probabilmente un personaggio
importante.
Nelle narrazioni di Luca
e Giovanni, Gesù interviene guarendo l'orecchio mozzato.
In quelle di Matteo e
Giovanni, Gesù ordina di riporre la spada al suo posto (Matteo) e nel
fodero (Giovanni).
Ciò che suscita
perplessità è la presenza di un'arma importante come la spada
difficilmente occultabile.
Si può ragionevolmente pensare
che Gesù non permettesse ai suoi discepoli più stretti di portare con
sé simili armi.
Inoltre, è facilmente
intuibile che le autorità romane vietassero a comuni cittadini di
girare armati per la vie di Gerusalemme, soprattutto in periodi come
le festività ebraiche, quali la Pasqua, che maggiormente
presentavano il pericolo di sommosse per la grande concentrazioni di
pellegrini in città.
Un'attenta analisi della
traduzione può permettere la comprensione di una maggiore veridicità
dei fatti.
Il testo greco del Merk
riporta la parola “makaira”. Secondo il vocabolario
greco-italiano del Rocci, tale parola è tradotta in prima scelta
come coltello (per tagliare la carne) e, solo in seconda istanza,
come pugnale, spada che corrisponde più esattamente al termine
“xifos”.
Secondo Matteo, Gesù ha
ordinato di riporre il coltello al suo posto (topos), non meglio
identificato, mentre Giovanni parla di fodero.
La parola greca “zeke”,
sempre secondo il Rocci, più che fodero, traduzione comunque
accettata, indica una borsa, una guaina, quindi un contenitore
probabilmente in stoffa o cuoio, che, fasciando un coltello, può
essere più facilmente nascosto sotto gli abiti.
Giovanni precisa che
Pietro “aveva un coltello” (secondo questa interpretazione).
L'espressione potrebbe indicare che l'aveva portato occasionalmente
viste le circostanze minacciose nei confronti del suo Maestro.
Gesù non gli ordina di
buttarlo via, ma di riporlo al suo posto, dimostrando di accettare
una situazione che forse presentava caratteristiche di consuetudine,
quale avere un coltello, ma non una spada.
In conclusione questo
episodio così interpretato appare psicologicamente più consono al
testo e maggiormente verosimile dal punto di vista storico.
A completamento di quanto
detto, appare opportuno citare il passo evangelico di Luca (22,
36-38), in cui Gesù esorta i suoi discepoli a procurarsi soldi,
borse e spade.
Tuttavia, quando i
discepoli gli presentano due spade, Gesù tronca il discorso con un
deciso “basta!”, come a smentire il proprio riferimento alle
armi, quasi che questo fosse più metaforico che reale: un invito ad
essere più accorti e sulla difensiva rispetto a quando li aveva
inviati a predicare da soli, senza portare nulla con sé, nemmeno il
bastone come unico strumento possibile di difesa. (Matteo 10, 5-15;
Marco 6, 7-13; Luca 9, 1-6).
Nel frattempo Gesù era
diventato un personaggio in vista contro cui tramavano le autorità
ebraiche.
Anche in questo passo è
usato il termine “makaira”, quindi coltello.
mercoledì 7 novembre 2018
Psicologia, evoluzione, spiritualità
La psicologia,
l'antropologia, la storiografia hanno indagato in modo esteso e approfondito la comparsa dell'intelligenza nel corso dell'evoluzione
umana. Gli studi sono ancora in corso anche perché nuove scoperte
archeologiche apportano costanti novità.
Accanto allo sviluppo
delle capacità intellettive si pone il cammino della spiritualità che appare strettamente congiunto alla relazione interpersonale.
A questo proposito si
desidera proporre un brano tratto da un'omelia di Don Do (1985) e lievemente
modificato.
Quando nasce l'uomo
Il branco primordiale è
in cammino. Uno alza la fronte, guarda le stelle e avverte il
meraviglioso silenzio: primo brivido, primo stupore, primo senso di
meraviglia. Lì è nato l'uomo.
Uno del branco si slancia
contro un altro impugnando minaccioso una pietra, ma qualcosa dentro
di lui lo trattiene. Lì è nato l'uomo.
Mentre il branco cammina,
uno si volge verso la compagna, la guarda non con il cuore tutto
senso, ma con il cuore conturbato e commosso. Lì è nato l'uomo.
Uno del branco cade
inerte a terra. Uno o due del branco si arrestano, scavano la terra,
depongono il compagno sotto la zolla, nel solco aperto, drizzano una
pietra, avvertono il senso della mancanza. Lì è nato l'uomo.
lunedì 1 ottobre 2018
Psicologia e Nuovo Testamento. Riflessioni sulla Risurrezione
PREMESSA
Questo saggio è scritto
nella convinzione che la vita e la morte di Gesù rappresentino
l'apice della storia spirituale dell'umanità, il punto più prossimo
a Dio in cui questa si sia mai trovata così tanto che si può
ragionevolmente pensare che Dio si sia fatto uomo.
Per i non credenti ci si
può limitare ad affermare che Gesù ha manifestato la più elevata
concezione di Dio in tutta la storia dell'umanità, così perfetta
che non si può immaginare altro da aggiungere.
Chi scrive è medico
psichiatra e ritiene, come molti altri uomini di scienza, che il
Vangelo possa essere avvicinato e studiato attraverso strumenti
scientifici in quanto vi sono narrati fatti storici, nonostante
qualcuno ritenga che si tratti, invece, di scritti appartenenti al
mondo dell'immaginario, paragonabili a romanzi, anche se si ammette
che siano ispirati da Dio stesso. Tuttavia, tale posizione sembra
superata dalle più recenti indagini e riflessioni concernenti Il
Nuovo Testamento avanzate da studiosi appartenenti a varie
discipline.
La storiografia appare in
questo caso la scienza di riferimento la quale, oltre a strumenti di
indagine propri, si avvale di contributi provenienti da diversi rami
del sapere scientifico, come sarà precisato nel corso della
trattazione, limitandoci per ora a citare l'archeologia.
Uno di questi, oggetto di
questo saggio, è la psicologia, campo assai arato proprio nello
studio dei Vangeli come avremo modo di vedere sinteticamente in
seguito.
L'obiettivo di questo
studio è di ricercare se vi sia una continuità narrativa
psicologicamente comprensibile fra i racconti concernenti la vita e,
soprattutto la morte di Gesù da una parte e quelli relativi alla Sua
Risurrezione.
Questo si impone come un
criterio fondamentale per ricercare la veridicità del racconto in
quanto chi ha portato la propria testimonianza, si è dovuto
confrontare prima con eventi naturali e, in seguito, con qualcosa
avente carattere di trascendenza.
Se il secondo aspetto non
è stato reale, ma inventato per qualsivoglia ragione, in buona o
cattiva fede, si può allora ipotizzare l'esistenza di uno iato, una
differenza, una variazione nella narrazione che può essere indagato
anche tramite altri approcci come la linguistica e la semeiologia, a
loro volta scienze composite.
La scienza non è il
campo della verità, non fornisce certezze incrollabili, ma è lo
studio del campo delle probabilità. Una ricerca storiografica non ci
può dare la certezza che i fatti stiano proprio così come ci sono
stati tramandati oralmente o per iscritto, ma ci può fornire
elementi per ipotizzare che è probabile e verisimile che determinati
eventi si siano svolti così come sono stati narrati. Infatti, alla
base della storiografia si pone la testimonianza che si traduce in
narrazione.
Nel credo cristiano sono
fondamentali nel loro insieme la vita, le opere, la morte di Gesù,
ma la Risurrezione rappresenta un indicatore fondamentale circa la
Sua filiazione divina come attesta San Paolo: “se Cristo non è
risuscitato, vana dunque è la nostra predicazione, e vana pure è la
nostra fede” (Prima Lettera ai Corinzi 15, 14). Il termine
filiazione può essere accostato a quello di identità come sostenuto
nei Vangeli, in modo più o meno diretto, in particolare secondo San
Giovanni.
Le riflessioni riportate
in questo saggio sono frutto di ricerche condotte grazie ai testi di
autorevoli studiosi di varie discipline e non portano un contributo
nuovo ed originale, ma, semplicemente, una conferma dal punto di
vista della psicologia a quanto da molti già evidenziato tramite
altri approcci di indagine.
Chi scrive evita di
entrare in merito a questioni teologiche che trascendono i limiti
delle sue conoscenze e di invadere altri settori di ricerca che non
gli sono propri.
Per non appesantire il
testo si è evitato di fare ricorso a note e citazioni tranne quando
strettamente necessario per cui si rimanda al lettore il compito, che
può risultare utile e creativo, di ricercare in bibliografia i
riferimenti relativi ai vari passi del testo.
Si troveranno, invece,
alcune ripetizioni che non sono state volutamente eliminate per
sottolineare e rinforzare gli aspetti principali di tale saggio.
INTRODUZIONE
Credere per fede, credere per ragione
Fede e ragione hanno
suscitato nei secoli dibattiti anche aspri particolarmente
all'interno delle religioni monoteiste che riconducono le proprie
origini ad una Rivelazione fatta da Dio agli uomini: ebraismo,
cristianesimo, islam.
Molto sinteticamente ci
si limita ad alcune brevi considerazioni.
Le opinioni che si sono
espresse nel tempo sono molto varie, alcune manifestano posizioni
dogmatiche, altre appaiono più flessibili.
Il Medio Evo sembra
essere stato molto ricco ed acceso a proposito di tale dibattito.
I grandi mistici
dell'epoca ricercano una relazione il più possibile vicina a Dio a
livello personale. La ragione non è solo inutile, ma anche
d'intralcio al cammino di avvicinamento a Dio che solo la fede può
permettere a livello di una esperienza interiore e profonda,
straordinariamente coinvolgente. Si pensi a Meister Eickhart e Santa
Teresa D'Avila.
Per altri fede e ragione
si riuniscono in un' unica via praticabile: avvicinarsi a Gesù
condividendone la fondamentale scelta di vita: la povertà che si
pone al servizio degli altri. Tale è la scelta di San Francesco.
I filosofi scolastici
ritengono, invece, che la ragione sia di valido supporto alla fede.
La teologia medioevale si confronta con il grande problema di
conciliare la Rivelazione della Bibbia con la filosofia greca, da
Sant'Agostino a San Tommaso.
Si ricercano anche delle
dimostrazioni che la sola ragione può fornire circa l'esistenza di
Dio. Celebre è L'Argomento Ontologico di Anselmo d'Aosta: avere il
concetto di Dio significa pensare a qualcosa di cui non si può
pensare nulla di più grande. Se si pensa ad un Ente che oltre
all'idea di Dio possedesse anche la caratteristica dell'esistenza, si
penserebbe a qualcosa di più grande di Dio. Quindi, ciò di cui non
possiamo pensare nulla di più grande, non può non esistere.
Una posizione intermedia
è quella assunta da Erasmo da Rotterdam: l'umanesimo cristiano.
Secondo Erasmo il Vangelo è un messaggio rivolto agli uomini per
regolare la vita quotidiana sul sentiero indicato da Gesù. Il
Vangelo non è un trattato teologico e, infatti, non molto ci rivela
sull'Aldilà. Bisogna riconoscere che non tutto è perfettamente
interpretabile senza dovere ricorrere a dogmi, ma ciò che non
risulta comprensibile oggi, potrà diventarlo domani.
Per Erasmo è importante
ricercare nei Vangeli la figura storica di Gesù: la teologia diventa
l'antropologia di Gesù.
Scienza e religione
La scienza può essere
considerata figlia della ragione e della filosofia in particolare dal
momento in cui questa non si è limitata alla speculazione astratta,
ma ha iniziato ad applicarsi allo studio della natura, dell'uomo, del
cosmo. A cominciare da Galileo per arrivare a Darwin, Marx, Freud, la
Chiesa, in particolare quella cattolica, ha visto nella scienza una
nemica che metteva in discussione le certezze di fede così come
erano scritte nella Bibbia. Il dibattito è talmente conosciuto che
riprenderlo in questa sede appare pleonastico.
Da una opposizione totale
si è gradualmente giunti ad un atteggiamento più flessibile:
religione e scienza appartengono a diverse categorie mentali. La
scienza ha messo in discussione molti passi delle Sacre Scritture a
partire dalla Genesi. La teologia si è adeguata ammettendo che
quanto scritto nella Bibbia non va preso alla lettera, ma rappresenta
spesso una metafora attraverso la quale viene espressa la Parola di
Dio. Non esiste, quindi, una situazione di conflitto. Non solo non vi
è antitesi, ma può esistere una convergenza: se molte certezze
della Bibbia sono state criticate, la ricerca scientifica ha potuto,
invece, confermare che molti passi delle Sacre Scritture trovano una
conferma attraverso il confronto con fonti storiche appartenenti ad
altre tradizioni, ad altri popoli o tramite l'archeologia. La
scienza, non più nemica, diventa neutrale ed in alcuni casi alleata.
Arriviamo, così, al
punto centrale che più ci interessa.
Il cristianesimo si basa
sulla fede che il Verbo si è fatto carne, che Dio stesso si è
incarnato in un essere umano. Dio stesso è entrato nella storia
dell'umanità e con essa ha interagito.
In questo senso il
cristianesimo si offre allo studio scientifico secondo i criteri di
verificabilità e falsificabilità di moderni orientamenti
epistemologici.
A questo punto ci si può
chiedere: quale scienza?
Vi è una sola risposta:
la storiografia.
Questa consiste nello
studio della storia e non è certamente una scienza esatta, ammesso
che esista una scienza esatta, concetto, questo, messo in discussione
dall'attuale epistemologia derivante dallo studio delle particelle
atomiche e dalla loro interazione. Il principio di indeterminazione
di Heisenberg scaturisce dal fatto che la scienza attuale ha
raggiunto un tale livello di complessità che necessita di
apparecchiature tecnologiche le quali permettono la ricerca, ma
pongono una tale distanza fra osservatore e osservato tanto che i
risultati possono essere alterati dalla tecnologia stessa messa a
punto per un determinato studio.
La storiografia si avvale
del supporto di altri approcci scientifici: l'etnologia,
l'antropologia, l'archeologia, la linguistica, per nominarne solo
alcune.
Lo studio della storia
concerne fatti unici, irripetibili, irriproducibili in laboratorio,
di cui siamo a conoscenza grazie alle testimonianze tramandate per
via orale e soprattutto scritta. In questo secondo caso il libro od i
libri che narrano un determinato fatto storico sono solitamente
redatti molti anni dopo l'avvenimento descritto. Inoltre, fino
all'invenzione della stampa i libri erano copiati a mano. Copie di
copie si sono succedute nei secoli, sottoposte ad errori involontari
o manipolazioni, aggiunte od omissioni, intenzionali.
Ci si vuole limitare ad
un solo esempio, la battaglia di Zama avvenuta il 18 ottobre 202
a.C., conclusasi con la vittoria dei romani sui cartaginesi. Di tale
battaglia abbiamo diversi resoconti redatti da storici come Polibio e
Livio fra i principali. Il primo è vissuto fra il 206 e il 124 a.C.
e può avere scritto le sue “Storie” che narrano anche di tale
battaglia alcuni decenni dopo che si è svolta. Difficilmente può
essere stato un testimone oculare in quanto nel 202 a.C. aveva
quattro anni. Qualora fosse stato presente per qualche strano motivo,
non avrebbe potuto farne una descrizione precisa e dettagliata come
risulta dalla sua narrazione. Evidentemente ha dovuto rifarsi ad una
tradizione orale od a manoscritti che non ci sono pervenuti. Livio ha
scritto molto più tardi, essendo vissuto fra il 67 a.C ed il 17 d.C.
Nessuno mette in
discussione che la battaglia di Zama sia veramente avvenuta e si sia
svolta più o meno come è stata descritta. Tuttavia, qualcuno
potrebbe sostenere che è stata completamente inventata o è stata
narrata in modo diverso rispetto alla realtà. Le descrizioni
pervenuteci sono tutte dalla parte dei vincitori. La vittoria romana
potrebbe essere stata ottenuta non con una leale battaglia in campo
aperto, ma tramite sotterfugi, inganni, tradimenti. In tale caso si
rendeva necessario dare alla vittoria una veste bella e dignitosa per
nascondere una realtà brutta, vile e indecorosa.
La storiografia, tramite
l'ausilio di altre scienze, ha il compito di verificare
l'attendibilità delle fonti storiche. Come si può notare anche la
scienza ha bisogno di fede, cioè di fiducia sulle testimonianze e
sui suoi stessi mezzi di ricerca.
Anticipando quanto avremo
modo di vedere dopo, i primi scritti del Nuovo Testamento, in
particolare le lettere di San Paolo, sono posteriori di solo due
decenni circa rispetto alla morte di Gesù.
Fra le scienze di cui la
storiografia si può avvalere vi è anche la psicologia.
Verso la metà del secolo
scorso è stato coniato il termine di psicostoria che non ha avuto
molto seguito. Si voleva, appunto, concettualizzare l'applicazione
della psicologia allo studio della storia con particolare riguardo
all'analisi dei fenomeni di massa, ad aspetti considerati patologici
come il razzismo, all'approfondimento delle motivazioni che sono alla
base di piccoli e grandi eventi. In particolare ci si interessava
alle autobiografie dei protagonisti della storia in ambito militare,
politico, sociale, artistico, riconsiderate alla luce della
psicologia e psicopatologia del profondo. In assenza di scritti
autobiografici sono state utilizzate anche altre fonti, tutto ciò
che permettesse uno studio in tale direzione.
Lo stesso Freud si dedicò
all'approfondimento psicologico di persone del passato come Mosè o
più recenti come Napoleone, cercando fondamentalmente una conferma
alle proprie teorie piuttosto che ad una comprensione dei loro
vissuti cognitivi ed emotivi. Assai diversa e più pertinente appare
l'indagine su Mosè da parte di Buber che pure non era né psicologo
né psichiatra e cerca di discernere fatti storici all'interno della
leggenda.
La bibliografia a tale
proposito appare ormai immensa ed in questa sede ci si limita a
titolo di esempio allo studio di Lutero da parte di Erikson e di
Hitler da parte di Langer compiuto contemporaneamente alla vita del
dittatore tedesco su commissione del governo americano.
In ambito più vicino
all'oggetto del nostro interesse si deve citare una interessante
“Psicoanalisi del Vangelo” da parte di Dolto la quale, molto
saggiamente, non analizza i protagonisti del Nuovo Testamento, ma si
limita a fornire interpretazioni relazionali e simboliche rispetto a
diversi avvenimenti fra i quali, in particolare, alcuni miracoli
oltre che il concepimento di Gesù ad opera dello Spirito Santo.
Un'esegesi basata sulla
psicologia degli archetipi secondo Jung è stata elaborata da
Drewermann, mentre la figura di San Paolo, tramite quanto dice di se
stesso nelle sue lettere, meglio si presta ad un approfondimento
psicologico (Berger).
L'obiettivo di questo
saggio è più mirato: attraverso la conoscenza maturata in anni di
studio e di pratica clinica, l'autore cerca nello studio dei testi
una verisimiglianza psicologica fra i racconti Evangelici circa la
vita e, soprattutto, la morte di Gesù da una parte e la Sua
Risurrezione dall'altra, cioè una conformità nella narrazione che
permetta di escludere la possibilità di falsità e manipolazioni che
sarebbero indicate dalla comparsa, ad esempio, di uno stile
agiografico ed apologetico, anche in buona fede.
Le teorie psicologiche
cui si fa riferimento sono fondamentalmente quelle
sistemico-relazionali e quella psicodinamica adleriana per le quali
si rimanda ai testi citati in bibliografia.
Uno strumento di analisi
psicologica che non si impara sui libri, ma si apprende nel corso
della vita, non solo professionale, è l'empatia: la capacità di
mettersi nei panni dell'altro, anche se vi è una notevole distanza
di tempo ed una scarsità di informazioni.
I Vangeli non sono stati
scritti come documentazione storica destinata a durare nei secoli e,
comunque, non da storiografi di professione. Costituiscono una
testimonianza sintetica, ma essenziale, di una tradizione e di una
predicazione orale destinata ai contemporanei per dare maggiore
diffusione alla Parola di Gesù. Tale caratteristica comporta che
rispetto ad uno scritto con valore storico si abbiano meno
informazioni, ma il testo fornisce una immediatezza tipica della
cronica.
A tale proposito appare
utile una breve divagazione per fornire alcune sintetiche
considerazioni sugli aspetti psicologici della testimonianza.
Più ancora che psicologi
e psichiatri, il personale investigativo di polizia ed i giudici
sanno quanto possano essere fra loro differenti le testimonianze
oculari rese da persone diverse che hanno assistito allo stesso
evento.
Escludendo la menzogna,
numerosi possono essere i motivi che rendono le testimonianze fra
loro assai differenti, limitandosi, appunto, a quelle rese in
perfetta buona fede.
Si consideri la posizione
spaziale rispetto all'evento. Ci si può trovare a distanza
variabile: talora sono presenti oggetti più o meno ingombranti che
limitano la visuale per cui alcune persone riescono a notare
particolari che, invece, sfuggono ad altre.
Importanti sono le
condizioni di illuminazione variabili non solo in rapporto alla luce
del sole ed alle zone d'ombra, ma anche in relazione alla luce
artificiale. Oltre a ciò bisogna pensare alle condizioni acustiche
del contesto.
Importante è la
dimensione temporale per cui una persona può essere già presente
quando un determinato fatto ha inizio, mentre un'altra giunge più
tardi od andarsene via prima della conclusione.
La condizione soggettiva
della persona riveste una rilevanza notevole. Le capacità di
attenzione e concentrazione possono essere modificate da variabili
interiori come le condizioni di salute o l'uso di sostanze esogene
quali droghe e farmaci.
Possono influire fattori
affettivi: l'emotività più o meno accentuata, sia costituzionale
che legata all'evento oggettivo, può incidere sulle capacità di
attenzione e concentrazione sia in senso positivo che negativo.
L'emozione può indirizzare la concentrazione dell'individuo su
particolari significativi, o, al contrario, sviarla su aspetti
insignificanti. In alcuni casi un soggetto può volutamente
distogliere la propria attenzione sottraendosi all'evento: fuggire,
nascondersi, chiudere e coprirsi gli occhi o tapparsi le orecchie.
La reazione soggettiva
può variare in relazione al coinvolgimento emotivo: un estraneo
potrà mantenere una fredda concentrazione, mentre una persona
coinvolta nell'evento avrà una reazione emotiva che può giungere
fino alla perdita dei sensi o all'intervento attivo, trasformandosi
da spettatore in attore.
La reazione
comportamentale tramite un intervento attivo può diminuire la
capacità di attenzione ed incidere grandemente sul ricordo.
Il ricordo stesso appare
un fattore importante in quanto va incontro a trasformazioni nel
tempo. Più ci si allontana dall'evento e più il ricordo tende a
perdere nitidezza sia in qualità che quantità, impoverendosi di
particolari anche significativi. Talora può succedere l'esatto
contrario: un aspetto più o meno importante emerge a distanza di
tempo proprio perché la partecipazione emotiva incide al momento dei
fatti, ma successivamente si riesce a ricuperare un distacco
affettivo che facilita il ricordo. Tuttavia, è assai difficile
valutare che non si tratti, invece, di una confabulazione, cioè di
un episodio o di un particolare inventato inconsciamente. Fatti
successivi possono fornire nuovi dati concernenti l'evento in
questione suscitando ricordi la cui aderenza alla realtà non è
sempre facilmente valutabile. Da questa trattazione si vogliono
escludere testimonianze volutamente false perché legate a paura o
interessi personali. In tali casi una persona può variare la propria
narrazione dei fatti perché nel frattempo è scomparsa una persona
che incuteva timore o sono variate determinate circostanze per cui
l'evento in oggetto acquista o perde importanza sia a livello
soggettivo che generale.
Si sottolinea il ruolo
determinante della personalità dell'individuo. Una persona sicura di
sé, egosintonica, tenderà a non avere incertezze nemmeno se
confrontata con evidenti prove contrarie. Invece, un soggetto
insicuro, egodistonico, potrà variare la propria testimonianza in
relazione ad ogni minimo dubbio sia interiore che sollevato da altri.
Si vuole ancora ricordare
che la validità di una testimonianza può essere supportata dalla
presenza di un ricordo insignificante tanto da non avere particolare
attinenza con il nucleo del racconto.
Nel Vangelo di San Marco
se ne trova un esempio molto significativo sottolineato da B. Prete:
la guarigione del cieco Bartimeo (10, 46-52). L'episodio è
raccontato anche da San Matteo (20, 29-34) e da San Luca (18, 35-43)
con caratteristiche diverse che riportano a quanto già detto circa
la fisiologica trasformazione del ricordo.
In questo caso si vuole
segnalare la presenza di un particolare assolutamente secondario: “il
cieco buttò via il mantello, balzò in piedi e andò vicino a Gesù”
(Marco, 10, 50).
Quel gesto di buttare via
il mantello non ha nessuna importanza rispetto al racconto, non
aggiunge e non toglie nulla. L'ipotesi psicologica più probabile è
che solo un testimone oculare abbia notato il fatto e lo abbia
riferito nell'integrità della narrazione.
Appare notevole la
differenza, ad esempio, con la guarigione della figlia di Giairo (San
Matteo, 9, 18-26; San Marco, 5, 21-43; San Luca, 8, 40-56) in cui i
tre evangelisti riportano il fatto che Giairo si inginocchiò davanti
a Gesù, gesto significativo dell'atteggiamento di fede.
Al di là di questa
tematica che può essere orale o scritta, esistono vari modi per
indagare un'opera letteraria dal punto di vista psicologico:
- analizzare l'opera di
uno scrittore per sottoporre ad analisi lo scrittore stesso,
- analizzare la vita di
uno scrittore per comprendere dal punto di vista psicodinamico la sua
opera,
- cercare nell'opera di
uno scrittore intuizioni che siano in sintonia con una determinata
teoria psicologica, anticipandola, sia pure per aspetti limitati, di
uno spazio temporale più o meno ampio,
- analizzare un'opera con
lo stesso procedimento interpretativo applicato al sogno: indagare il
contenuto latente che si cela dietro quello manifesto.
Tutto ciò rimane
estraneo agli intenti di questo saggio per quanto sopra scritto circa
la scarsità di informazioni e perchè non pertinente agli obiettivi
di questa ricerca.
Si può ritenere più
affine lo studio già citato di Buber circa la ricerca di fatti
storici all'interno della leggenda, ma ciò va oltre i limiti
dell'indagine psicologica e, comunque, si parte dal presupposto che i
Vangeli non siano leggenda, ma, come già detto, cronaca, anche se
non necessariamente di fatti di cui si è stati testimoni diretti.
Come già detto in
precedenza, poco o nulla sappiamo circa gli evangelisti e tanto meno
sulla loro personalità. A parte la definizione conferita da Gesù
stesso a Giovanni evangelista e a suo fratello Giacomo di “figli
del tuono”, cioè impetuosi (Marco 3,17), appare difficile
rintracciare riferimenti diretti nei quattro Vangeli se non eventi e
dialoghi il cui utilizzo per un approfondimento psicologico appare
un'operazione che definirei improntata a superbia professionale,
antitetica all'empatia.
In questo saggio non si
procederà ad una analisi psicolinguistica che parte dallo studio
delle parole, della costruzione sintattica e semantica delle frasi
anche tramite l'ausilio di strumenti informatici, per il semplice
motivo che chi scrive non è esperto in tale disciplina e si rimanda
a lavori specifici in questo settore che, però, non sembrano portare
contributi rilevanti.
Fondamentale appare il
contributo di Latourelle circa i criteri ermeneutici applicabili allo
studio del Nuovo Testamento.
- Analisi sintattica.
- Analisi semantica.
- Critica letteraria:
interna a ciascun Vangelo e fra i quattro Vangeli; esterna rispetto
al linguaggio ed allo stile narrativo di quell'epoca, non solo in
ambito ebraico.
- Criteri storici.
Primari: attestazione molteplice; discontinuità rispetto alla
tradizione ebraica, cioè originalità della predicazione di Gesù;
continuità con la tradizione ebraica, cioè appartenenza di Gesù
alla cultura ebraica; interdipendenza fra continuità e
discontinuità; spiegazione necessaria per cui si deve scegliere la
spiegazione più semplice per comprendere diversi fatti come, ad
esempio, la continuità fra comunità pre-pasquale e post-pasquale.
Secondari: lo stile di
vita di Gesù, l'uniformità del suo messaggio, del suo esempio, del
suo comportamento: semplicità, sobrietà, autorità.
- Criteri misti
(storico-letterari): intellegibilità interna del racconto;
interpretazioni diverse, ma con accordo di fondo fra i quattro
evangelisti; soggettività di ogni evangelista.
- Convergenza di criteri.
Non possiamo approfondire
le implicazioni teologiche di tale sintetico panorama circa i criteri
ermeneutici concernenti i Vangeli in quanto esulano dalle competenze
di chi scrive che è psichiatra e psicoterapeuta per cui si rimanda
alla bibliografia. Un accostamento allo studio dei Vangeli esula
certamente dalla psichiatria, ma può concernere l'esperienza
derivante dalla pratica psicoterapeutica.
Questa è centrata sulla
relazione paziente-terapeuta e sull'analisi della narrazione del
primo da parte del secondo che, evidentemente non tiene tutto
gelosamente per sé, ma restituisce al paziente interpretazioni che
mettono in relazione aspetti della narrazione stessa in modo da
gettare nuova luce su di essi permettendo l'acquisizione di una nuova
consapevolezza di sé. La psicoterapia può essere intesa come il
racconto da parte del paziente della propria vita paragonabile ad un
romanzo la cui trama è andata perduta e viene rintracciata e
riscritta a quattro mani insieme al terapeuta.
A questo proposito
entrano in gioco diversi fattori teorici ed attinenti alla prassi
terapeutica che possono variare a seconda della scuola psicodinamica
di riferimento.
Non potendo addentrarci
in quello che rischierebbe di diventare un manuale di teoria e
tecnica della psicoterapia, ci limitiamo al concetto di empatia, già
incontrato nel corso della trattazione, in quanto rappresenta lo
strumento principale su cui si fondano le considerazioni che verranno
sviluppate.
L'empatia è una funzione
psichica definita come la capacità di mettersi nei panni degli altri
ed è presente in misura maggiore o minore in ogni essere umano. Ne
sono sprovvisti o poco provvisti i disturbi di personalità come, ad
esempio, quello asociale. L'empatia è, infatti, una componente del
“sentimento sociale” elaborata dalla teoria adleriana di cui ne
rappresenta un aspetto essenziale accanto all' “aspirazione alla
superiorità”.
L'empatia fa parte della
vita quotidiana e diventa uno strumento fondamentale nel rapporto
medico-paziente e, soprattutto, in psicoterapia.
L'empatia, infatti, è
una funzione complessa: affettiva in quanto ci permette di entrare in
risonanza emotiva con il nostro prossimo; cognitiva poiché favorisce
la conoscenza dell'altro tramite ciò che so di me, ma anche
viceversa.
Rappresenta un importante
ausilio nel comprendere se l'altro mente o tace delle informazioni,
permette di ipotizzare gli eventuali motivi per cui si comporta in un
determinato modo.
Certamente l'empatia non
rappresenta una macchina delle verità, ammesso che ne esiste una, e
deve essere sottoposta al vaglio critico della ragione la quale
ricerca conferme tramite la verifica dei dati acquisiti attraverso
altre vie come il confronto con altre narrazioni, procedimento che la
psicologia condivide con la storiografia.
Tramite l'empatia si può
cercare di comprendere come una persona potrebbe comportarsi in una
determinata circostanza e ciò vale anche per se stessi.
Si vuole proporre una
esemplificazione di ciò tramite un racconto che concerne l'argomento
trattato.
Se ci fossi stato
“Dobbiamo ridiventare capaci di
sentire ancora in noi ciò che vi è di eroico in Gesù….Solo
allora il nostro cristianesimo e la nostra concezione del mondo
ritroveranno l’eroico e ne saranno vivificati”
A. Schweitzer
Un interrogativo pesa come un macigno.
“Se ci fossi stato, che cosa avrei
fatto?
Se ci fossi stato, quale nome avrei
gridato: Gesù o Barabba?
Se ci fossi stato, sarei rimasto in
disparte, in silenzio?
Se ci fossi stato in quale silenzio
sarei rimasto, quello che urlava per Gesù o quello che urlava per
Barabba?
Se ci fossi stato, avrei voltato le
spalle e me ne sarei andato cercando di passare inosservato, sperando
che succedesse qualcosa perché nulla di nuovo accadesse che avrebbe
potuto cambiare la mia vita e le mie consolidate abitudini?
Se ci fossi stato, avrei sperato che
succedesse qualcosa perché iniziasse un mondo nuovo, migliore, più
giusto?
Se ci fossi stato, avrei fatto qualcosa
perché questo accadesse?
Eppure io ci sono stato, io c’ero, io
ci sono.
Eppure tutti ci siamo stati, c’eravamo,
ci siamo.
Anzi, ci siamo sempre stati, siamo
ancora lì, non ci siamo mai mossi da lì.
Se ci fossimo stati, che cosa avremmo
fatto?
Se c’eravamo, che cosa abbiamo fatto?
C’è solo una risposta, una sola
valida per ognuno di noi, diversa per ciascuno di noi.
Avrei obbedito a chi mi imponeva di
gridare Barabba o sarei stato fra coloro che cercavano la Via, la
Verità, la Vita?
Se ci fossi stato, avrei gridato Gesù?
Chi gridava Gesù doveva essere pronto
a morire.
Chi gridava Gesù doveva essere pronto
a morire per un mondo in cui chi gridava Gesù non sarebbe dovuto
morire.
E’ forse questo il regno di Dio?
Se è così, allora non bisogna mai
smettere di porsi la domanda:
Se ci fossi stato, che
cosa avrei fatto?”
I VANGELI
I Vangeli canonici sono
quelli riconosciuti tali, cioè ufficiali, autentici dalla chiesa
cattolica e, quindi, anche dalle altre professioni cristiane, già
nel Concilio di Roma (382), nel Sinodo di Ippona (393) ed in quello
di Cartagine (397). Ci troviamo in epoca relativamente recente
rispetto alla vita di Gesù e molto prima delle divisioni che hanno
portato all'esistenza di diverse chiese cristiane.
Tutto ciò che non è
stato riconosciuto “canonico” è rientrato in una vasta
produzione di scritti “apocrifi”.
Per autenticità dei
Vangeli si intendeva a quel tempo la conformità alla predicazione di
Gesù, quindi una coerenza intrinseca, e l'attribuzione a persone che
le testimonianze storiche indicavano come gli Autori dei quattro
Vangeli.
Questo secondo aspetto è
sostenuto da una documentazione scritta che ci è pervenuta e risale
ai primi Padri della chiesa già a partire dal 100 d.C.
Molte sono le citazioni
dei Vangeli che si trovano nelle opere dei primi autori cristiani e
particolarmente importanti sono alcuni riferimenti diretti.
Vangelo secondo San
Matteo
La testimonianza più
importante è quanto affermato da Papia, vescovo di Jerapoli in
Frigia nella “Spiegazione dei detti del Signore”.
Tale scritto non è
giunto fino a noi, ma lo si conosce attraverso quanto riportato da
Eusebio di Cesarea nella sua opera “Storia ecclesiastica” (324
d.C., circa).
Papia così scrive
intorno al 125: “Matteo coordinò i detti in lingua ebraica;
ciascuno poi li ha interpretati come poteva”. Molti codici (cioè
copie scritte a mano prima dell'invenzione della stampa) riportano
“scrisse” al posto di “coordinò).
La testimonianza scritta
da Papia è molto vicina agli eventi di cui parla. Inoltre, sempre in
base alle citazioni di Eusebio e di altri scrittori cristiani
successivi, Papia avrebbe conosciuto di persona qualche discepolo
degli apostoli e, quindi, poteva essere erede diretto di
testimonianze orali.
Rimangono aperte diverse
questioni circa tali testimonianze. Non si sa se i detti siano frasi
attribuibili a Gesù stesso o qualcosa di più vasto. Non si sa se
Matteo coordinò, cioè raccolse degli scritti o mise per iscritto
egli stesso una tradizione orale esistente.
Papia fa riferimento ad
un Vangelo, o a un suo abbozzo, in ebraico che non ci è pervenuto.
Il Vangelo di Matteo, come gli altri, esiste nella sua forma
originaria in greco prima di essere tradotto in latino.
Si potrebbe ipotizzare
l'esistenza di una raccolta frammentaria di scritti in ebraico che
avrebbe avuto una sua forma più completa in greco probabilmente ad
opera dello stesso Matteo.
Origene (185-254 d.C.),
citato da Eusebio, scrive: “Come ho appreso nella tradizione a
proposito dei quattro Vangeli, che sono gli unici incontrastati nella
Chiesa di Dio che è sotto il cielo, dapprima è stato scritto quello
secondo Matteo, originariamente pubblicano e poi apostolo di Gesù
Cristo: egli lo ha pubblicato per i credenti venuti dall'ebraismo e
lo ha composto in lingua ebraica”.
Il Vangelo ebraico di
Matteo si situerebbe fra il 50 ed il 60 d.C. e quello greco fra il 60
ed il 70 d.C.
Vangelo secondo San Marco
Anche per il Vangelo di
Marco appare fondamentale la citazione di Papia, riportata da Eusebio
di Cesarea (324 d.C., circa). Papia si appella alla testimonianza di
Giovanni il presbitero, da alcuni identificato in Giovanni
l'evangelista.
Scrive Papia: “Questo
soleva dire il presbitero: Marco, interprete di Pietro, scrisse con
esattezza tutto quello che ricordava, ma non con l'ordine secondo il
quale erano avvenute le cose dette e compiute dal Signore. Egli,
infatti, non aveva ascoltato il Signore, né lo aveva seguito, ma più
tardi, come ho detto, l'aveva seguito. Pietro, che insegnava secondo
i bisogni, non già disponendo secondo un ordine i discorsi del
Signore, Marco, quindi, non cadde in errore nello scrivere alcune
cose così come le ricordava. Egli, infatti, si preoccupava solo di
questo: non tralasciare nulla delle cose che aveva ascoltato, né
mentire nel riferirle” (Eusebio, Storia ecclesiastica).
Marco è citato sia negli
Atti degli Apostoli che da Paolo nelle sue lettere.
Il Vangelo di Marco
corrisponderebbe alla predicazione di Pietro. Ciò risulterebbe
attestato anche da altri padri della chiesa come Ireneo, Tertulliano,
Clemente Alessandrino, Origene, altrove citati, e da Epifanio
(“Ancoratus” 374 d.C. circa) e Girolamo (“De viris illustribus”
392 d.C. circa).
Tuttavia, un particolare
del suo Vangelo, lascerebbe pensare che sia stato egli stesso
testimone oculare almeno degli ultimi giorni della vita di Gesù.
Nel racconto della
cattura di Gesù così si legge: “Un giovinetto poi lo seguiva,
coperto di un lenzuolo sul corpo nudo e lo afferrarono; egli però,
abbandonando il lenzuolo, fuggì via nudo (Marco, 14,51). Si tratta
di un particolare assolutamente secondario rispetto agli eventi
narrati, difficilmente oggetto della predicazione di Pietro.
Sembrerebbe trattarsi di una sorta di “firma” in cui Marco parla
di se stesso.
Marco avrebbe raccolto la
predicazione di Pietro a Roma o in Italia in generale e l'avrebbe
messa in forma scritta in greco poco dopo il 60 d.C.
I Vangeli di Marco e
Matteo risulterebbero più o meno contemporanei, almeno nella loro
forma considerata definitiva.
Vangelo secondo San Luca
Il terzo Vangelo sarebbe
stato scritto da Luca o Lucano.
Testimonianze di ciò
risalgono alla fine del II secolo e provengono dal Canone Muratoriano
* e, soprattutto, da Ireneo di Lione che nel libro Adversus Haereses
(180 d.C., circa) afferma che Luca, compagno di Paolo, ha raccolto in
un libro il Vangelo predicato da Paolo.
Di Luca si sa assai poco
essendo una persona estranea ai fatti che racconta, come egli stesso
afferma.
Notizie su di lui si
trovano nelle lettere di Paolo dalla quali si evince che era medico e
che avrebbe incontrato l'evangelista Marco (Lettera ai Colossesi 4,
14).
Altre informazioni ci
giungono dagli Atti degli Apostoli in cui chi scrive si presenta come
autore di un Vangelo. La critica moderna tende ad attribuire la
paternità dei due scritti alla stessa persone per l'omogeneità
dello stile linguistico e narrativo.
Entrambe le opere sono
scritte in greco che sarebbe stata la lingua madre di Luca il quale
non era ebreo, ma ellenista, probabilmente originario dell'Asia
Minore. Sarebbe diventato discepolo di Paolo e lo avrebbe seguito nei
suoi viaggi. In alcune parti degli Atti scrive “noi”
contravvenendo al fatto che tutti i testi neotestamentari sono
scritti in terza persona, compresa la maggiore parte degli Atti
stessi.
Nei preamboli sia del
Vangelo che degli Atti, Luca si rivolge ad un certo Teofilo scrivendo
in prima persona. In quello del Vangelo afferma di scrivere dopo
essersi documentato diligentemente sui fatti narrati nel libro, dopo
che altri avevano già lasciato testimonianze scritte.
D'altronde se il suo
Vangelo corrisponde alla predicazione di Paolo che non era discepolo
diretto di Gesù, è plausibile che risulti molto simile a quelli di
Matteo e Marco (costituendo nel loro insieme i tre Vangeli sinottici)
in quanto Paolo stesso, per quanto concerne la narrazione degli
eventi, si doveva appoggiare su testimonianze orali e documentazioni
scritte. Per integrare la predicazione di Paolo, Luca può avere
attinto a fonti preesistenti, come lascerebbe pensare quanto scritto
nel preambolo. In questo modo Luca confermerebbe l'esistenza dei due
Vangeli precedenti il suo datato fra il 70 e l'80 d.C. mentre le
prime lettere di San Paolo sarebbero state scritte fra il 50 ed il 60
d.C.
* Il Canone Muratoriano
rappresenta il più antico elenco degli scritti Neotestamentari fra
cui compaiono i quattro vangeli canonici e non altri. Scritto in
latino da un anonimo risalirebbe al VIII secolo d.C. ed è stato
scoperto nella Biblioteca Ambrosiana di Milano da Ludovico Muratori e
pubblicato nel 1740. Si ritiene che possa essere la copia di un
originale greco risalente alla fine del II secolo d.C.
Vangelo secondo San
Giovanni
Giovanni e suo fratello
Giacomo, in base a quanto riportato da Matteo e Marco, erano figli di
Zebedeo, un pescatore della Galilea, e di una delle donne che
seguivano Gesù insieme agli apostoli. Potrebbe trattarsi di Salome.
Nel suo Vangelo si fa
riferimento al “discepolo che Gesù amava” identificabile in
Giovanni stesso.
Ireneo di Lione,
nell'opera Adversus Haereses, scrive: “in seguito Giovanni, il
discepolo del Signore, quello che riposò sul petto di Lui, ha
pubblicato anch'egli un Vangelo quando dimorava ad Efeso, in Asia”.
Ireneo dichiara, inoltre,
di avere conosciuto in giovinezza Policarpo, vescovo di Smirne, che
aveva conosciuto personalmente Giovanni e di cui era stato
probabilmente discepolo.
L'attribuzione del quarto
Vangelo a Giovanni è molto contestata. Alcuni ritengono che sia
attribuibile a Giovanni il Presbitero, il quale, il base alla
testimonianza di Papia, riportata da Eusebio, sarebbe stato anche lui
un discepolo di Gesù, ma distinto da Giovanni l'apostolo. Si ritiene
che il Prologo sia stato scritto successivamente, intorno al 180
d.C., così come è opinione diffusa che il passo concernente la
donna adultera sia stato anch'esso inserito successivamente.
Molti ritengono che
Giovanni e Giovanni il Presbitero* siano la stessa persona. Infatti,
il quarto Vangelo sarebbe stato scritto assai dopo gli altri intorno
all'anno 100 d.C. e, quindi, quando l'apostolo era molto in là negli
anni.
Nonostante che il quarto
Vangelo sia considerato il più teologico, si è anche riscontrata
una coerenza interna con descrizioni dei luoghi della Palestina e di
Gerusalemme assai accurate, come testimonia, ad esempio, il
ritrovamento archeologico della piscina di Siloe.
Il Vangelo di Giovanni si
conclude con una discussione fra Gesù e Pietro dalla quale si
evincerebbe la testimonianza che Giovanni, probabilmente il più
giovane fra gli apostoli, sia morto molto vecchio.
La differenza rispetto ai
sinottici potrebbe essere dovuta proprio al fatto di essere stato
scritto più tardi degli altri ed in tarda età dello scrivente. Si
può sostenere che i ricordi era più sbiaditi, cosa che non
sembrerebbe confermata dalla precisione di tante descrizioni di fatti
e luoghi. E' stato invece osservato che Giovanni avrebbe avuto più
tempo per meditare e comprendere il messaggio di Gesù. Inoltre
sarebbe stato scritto quando molti altri testimoni e protagonisti
erano morti. Si può sostenere che Giovanni si sia sentito più
libero di scrivere senza timore di essere smentito, cosa poco
credibile per chi aveva seguito il Signore e ne aveva assimilato il
messaggio. Più probabilmente la maggiore libertà era ascrivibile al
fatto di non urtare più la suscettibilità di personaggi anche
importanti o non compromettere la posizione di persone quali Nicodemo
e Giuseppe di Arimatea che erano stati vicini a Gesù in modo
piuttosto riservato.
Un'ultima riflessione
riguarda il passo dell'adultera. Se è stato effettivamente aggiunto
in un secondo tempo, ciò può mettere in discussione l'attendibilità
del quarto Vangelo. Tuttavia, si può anche osservare che la
narrazione dell'episodio è talmente in linea con le opere e le
parole di Gesù che la sua aggiunta posteriore sia dovuta a qualche
discepolo di Giovanni da cui aveva sentito raccontare l'episodio. Ciò
testimonierebbe quanto la tradizione orale e quella scritta fossero
talmente intrecciate da rendere i Vangeli dei libri ancora “vivi”
a pochi anni dalla morte di Gesù e rivolti più alla predicazione
contemporanea, alla cronaca, piuttosto che costituire una
testimonianza storica destinata a durare nei secoli.
*Presbitero in greco
significa vecchio.
Atti degli Apostoli
Tale opera è comunemente
attribuita a San Luca e sarebbe di poco posteriore al suo Vangelo. Lo
stile narrativo e linguistico lascerebbero poco dubbi al fatto che
l'autore delle due opere sia la stessa persona. Alcuni pensano che
inizialmente si trattasse di un unico libro, poi suddiviso per
accorpare il Vangelo agli altri, in particolare di Marco e Matteo con
cui costituisce il gruppo dei Sinottici per le numerose somiglianze
di narrazione che li accomunano.
La prima parte degli
“Atti” si riferisce alla nascente chiesa di Gerusalemme, ma la
seconda, assai più lunga narra della predicazione di Paolo di cui
Luca sarebbe stato discepolo accompagnandolo nei suoi viaggi fino a
Roma dove il libro termina.
La narrazione in terza
persona, tipica del Nuovo Testamento, viene sostituita dalla prima
persona in due parti, entrambe assai lunghe (21, 1-7; 27, per intero;
28, 1-16).
L'attribuzione degli
“Atti” a Luca è affermata da Ireneo di Lione in Adversus
Haereses, da Tertulliano in Adversus Marcionem (210 d.C. circa) e da
Clemente Alessandrino (150-215 d.C. circa) nel Pedagogo e nei
Miscellanea.
Lettere di San Paolo
Le notizie riguardanti
San Paolo ci vengono dalle sue lettere stesse e dagli Atti degli
Apostoli. Ebreo, nativo di Tarso, cittadino romano, è stato un
persecutore dei primi discepoli di Gesù fino al 36 d.C. circa, anno
in cui si situa la sua conversione. Da molti è considerato il primo
teologo cristiano per la ricca elaborazione personale del messaggio
di Gesù che ha diffuso soprattutto fra i pagani.
Sono considerate
autentiche: la Lettera ai Romani, la Lettera ai Filippesi, la Lettera
ai Galati, la Lettera ai Colossesi, le due Lettere ai Corinzi e le
due Lettere ai Tessalonicesi. Non sono invece considerate
attribuibili a Paolo, ma forse a suoi discepoli: la Lettera agli
Efesini, la Lettera a Tito, le due Lettere a Timoteo. Dubbia appare
l'attribuzione della Lettera agli Ebrei.
La prima Lettera ai
Corinzi e la lettera ai Galati, che maggiormente ci interessano per
le nostre osservazioni, sarebbero state scritte nel 57 d.C. circa. Si
tratta, dunque, di documenti cronologicamente molto vicini alla vita
di Gesù.
Riferimenti alle Lettere
di Paolo si trovano nelle Lettere di Ignazio di Antiochia (35-107
d.C. circa), suo discepolo, e negli scritti di Policarpo (69-155 d.C.
circa) e Marcione (85-160 d.C. circa) citati da Ireneo di Lione.
RISURREZIONE
Vangelo secondo San
Matteo
Ai fini di questa
trattazione appare importante sottolineare la continuità di
narrazione fra gli avvenimenti concernenti la morte di Gesù e la
scoperta della Sua Risurrezione.
I primi, a parte la
sorveglianza della tomba ordinata da Pilato su insistenza dei Sommi
Sacerdoti, si concludono con la deposizione nella tomba del corpo di
Gesù da parte di Giuseppe di Arimatea.
Al versetto 27,61 si
legge: “intanto due delle donne, Maria Maddalena e l'altra Maria,
stavano lì sedute di fronte alla tomba”.
I racconti della
Risurrezione riprendono proprio dalle due donne: “Passato il
sabato, all'alba del primo giorno della settimana, Maria Maddalena e
l'altra Maria andarono a vedere la tomba di Gesù (28,1). Vi fu un
terremoto ed un angelo del Signore fece rotolare la grossa pietra che
chiudeva il sepolcro ed annunciò alle due donne la risurrezione di
Gesù invitandole ad andare a vedere dov'era il suo corpo. Mentre,
spaventate, ma piene di gioia, correvano ad annunciare la notizia ai
discepoli, Gesù venne incontro a loro e disse:”Non abbiate paura.
Andate a dire ai miei discepoli di recarsi in Galilea: là mi
vedranno” (28,10).
A questo proposito
appaino rilevanti due considerazioni.
La prima ha un carattere
psicologico: il contrasto di sentimenti presente nelle due donne,
paura e gioia, è comprensibile davanti ad avvenimenti di tale
importanza.
La seconda ha un aspetto
legale: nell'antichità in generale ed in quella ebraica in
particolare, le donne non avevano diritto giuridico di testimonianza.
Come è stato da molti osservato, avrebbe avuto maggiore credibilità
un' apparizione a persone di genere maschile. Tuttavia, l'Evangelista
non sembra porsi tale problema e si attiene a quello che possiamo
considerare l'effettivo avvenimento storico, l'apparizione a persone
di genere femminile. D'altronde è stato osservato che in vita Gesù
si era rivolto a uomini e donne senza distinzione e già questo viene
considerato un importante aspetto innovativo della Sua predicazione.
Al termine del Vangelo
Gesù appare ai discepoli. “Gli undici discepoli andarono in
Galilea, su quella collina che Gesù aveva indicato. Quando lo
videro, lo adorarono. Alcuni, però, avevano dei dubbi” (28,16).
Gesù li rassicura con le celebri parole che concludono il Vangelo:
“e sappiate che io sarò sempre con voi, tutti i giorni, sino alla
fine del mondo”.
Non può sfuggire la
frase “alcuni, però, avevano dei dubbi”. Se si scrive per
convincere, una tale frase appare controproducente. Persino loro, i
Suoi discepoli, dubitavano vedendolo. Nessuno nei secoli successivi
ha pensato di cancellare queste parole scomode. Nessuno si è sentito
scandalizzato da quella che possiamo ritenere una perfetta
corrispondenza del racconto alla realtà dei fatti successivi alla
Risurrezione.
Vangelo secondo San Marco
In questo Vangelo il
passaggio dal racconto della sepoltura a quello della Risurrezione è
ancora più immediato. “Intanto due delle donne, Maria Maddalena e
Maria madre di Ioses, stavano a guardare dove mettevano il corpo di
Gesù” (15,47).
Appare opportuno
soffermarsi sulla precisazione offerta da Marco che è più specifico
rispetto a Matteo: “Maria madre di Ioses”. Si ritiene comunemente
che il Vangelo di Marco sia la versione scritta della predicazione
orale di San Pietro, anche se non nella sua totalità. Ioses non è
un personaggio che compaia nei Vangeli in qualche episodio specifico,
per cui è probabile che sia stato citato in quanto conosciuto alla
comunità cristiana di quel tempo più di quanto fosse la madre
stessa. Tale osservazione rinforza la tesi del valore di cronaca
divulgativa che i Vangeli rivestivano nei primi decenni dopo la morte
di Gesù e la loro vicinanza alla predicazione orale almeno in alcuni
casi.
L'annunzio della
Risurrezione viene immediatamente dopo: “passato il sabato, Maria
Maddalena, Maria, madre di Giacomo, e Salome comprarono olio e
profumi per andare a ungere il corpo di Gesù. La mattina presto del
primo giorno della settimana, al levare del sole, andarono alla
tomba”. Si interrogavano su come avrebbero potuto spostare la
pietra posta davanti al sepolcro, ma la trovarono già spostata.
Allora entrarono e, piene di spavento, videro un giovane che disse
loro che Gesù era risuscitato e le invitava ad annunziare ai
discepoli che Gesù li aspettava in Galilea come aveva preannunciato
in vita.
“Le donne uscirono
dalla tomba e scapparono via di corsa, tremanti di paura e non
dissero niente a nessuno perché avevano paura” (16, 1-8). Allora
Gesù apparve a Maria Maddalena che si recò dai discepoli, tristi e
piangenti, annunciando che Gesù era vivo, ma non le credettero.
“Più tardi, Gesù
apparve in modo diverso a due discepoli che erano in cammino verso la
campagna. Anch'essi tornarono indietro e annunziarono il fatto agli
altri, ma non credettero neanche a loro” (16, 12-13).
Diverse sono le
considerazioni che si possono fare a proposito di tali racconti.
Le donne fuggono
spaventate e tacciono per paura. Si tratta di una reazione
psicologica più che comprensibile che avvalora la veridicità del
racconto. Assai diverso sarebbe stata la narrazione di chi avesse
voluto fornire una versione agiografica e non storica.
Solo dopo avere visto
Gesù, Maria Maddalena ha il coraggio di recarsi dai discepoli.
Inutile ripetere quanto già detto a proposito del valore della
testimonianza delle donne nell'antichità.
I discepoli sono tristi e
piangenti: si sentono abbandonati e, forse, persino traditi da Gesù
che, morendo sulla croce, non ha mantenuto le Sue promesse
messianiche.
Gesù appare ad altri due
discepoli, ma gli apostoli non credono nemmeno a loro. Non hanno
creduto a una donna e questo lo si può comprendere sulla base di
quanto detto, ma non credono nemmeno a degli uomini che conoscevano.
Decisamente questa
resistenza a credere, psicologicamente molto comprensibile, non
sarebbe stata sottolineata da chi avesse voluto trasmettere un
messaggio di trionfo. Decisamente la narrazione dei fatti relativi
alla Risurrezione appare totalmente in linea per stile narrativo e
descrizione psicologica ai racconti della vita e della morte di
Gesù.
Marco precisa che ai due
discepoli apparve “in modo diverso”. Tale episodio è
probabilmente lo stesso più ampiamente riferito nel Vangelo di San
Luca dove, come vedremo, i due discepoli riconoscono Gesù solo alla
fine del loro incontro, dopo avere trascorso molto tempo con Lui.
“Alla fine Gesù
apparve agli undici discepoli mentre erano a tavola. Li rimproverò
perché avevano avuto poca fede e si ostinavano a non credere a
quelli che lo avevano visto risuscitato” (16,14).
Questo rimprovero appare
come un brutto biglietto da visita per chi porterà sia agli ebrei
che ai pagani la predicazione di Gesù e chiederanno a loro volta di
essere creduti. Si può concludere che gli apostoli non potevano e
non volevano mentire. In questo dimostrano di avere compreso il
messaggio di Gesù.
Vangelo secondo San Luca
La stessa soluzione di
continuità fra i racconti della sepoltura e quelli della
Risurrezione si ritrovano nel Vangelo di Luca.
“Era la vigilia del
giorno di festa. Già stava per cominciare il sabato. Le donne, che
erano venute con Gesù fino dalla Galilea, avevano seguito Giuseppe.
Videro la tomba e osservavano come veniva deposto il corpo di Gesù.
Poi se ne tornarono a casa per preparare aromi e unguenti. Il giorno
festivo lo trascorsero nel riposo come prescrive la legge ebraica.
Il primo giorno della
settimana, di buon mattino le donne andarono al sepolcro, portando
gli aromi che avevano preparato per la sepoltura. Entrarono nel
sepolcro, ma non trovarono il corpo del Signore Gesù” (23, 54-56;
24, 1-3).
Appare inutile
sottolineare come non vi sia nessun cambiamento di stile narrativo
fra il “normale” racconto relativo alla sepoltura e quello
“eccezionale” del sepolcro vuoto.
Si impauriscono, tenendo
la testa abbassata verso terra, quando due uomini appaiono loro
annunciando la Risurrezione e spiegando che Gesù in vita l'aveva
predetta. Solo allora le donne ricordano che Gesù aveva parlato
della sua Risurrezione. Andarono a raccontare agli undici discepoli e
a tutti gli altri quello che avevano visto e udito. Luca specifica
che fra queste donne c'erano Maria, nativa di Magdala, Giovanna e
Maria madre di Giacomo. “Ma gli apostoli non vollero credere a
queste parole. Pensavano che le donne avessero perso la testa”
(24,11). Non solo non credono, ma le ritengono impazzite. Solo Pietro
corse al sepolcro, vide le bende e tornò a casa pieno di stupore.
Ancora non capisce, non crede, stupisce, ma non gioisce.
Questo racconto appare in
linea con quanto più volte sottolineato nei Vangeli: quando Gesù
annuncia la Sua morte e Risurrezione, gli apostoli non capiscono, non
credono, si rifiutano di farlo. Addirittura Pietro giunge a
rimproverare Gesù mettendo in dubbio le Sue stesse parole: “no,
questo non ti accadrà mai!” (Matteo, 16, 21-22). Sembra che gli
apostoli fossero impauriti davanti all'ipotesi della morte di Gesù,
paura motivata anche dal fatto di non capire e credere alla seconda
parte della predizione: la Sua Risurrezione. Nei tre Vangeli
Sinottici, oltre a quella citata, vi sono sette previsioni della
propria Risurrezione (Matteo, 17, 22-23; 20, 17-29; Marco, 8, 31-32;
9, 30-32; 10, 32-34; Luca 9, 21-22; 18, 31-34), mentre in quello di
Giovanni ve ne è una espressa in forma metaforica circa la
distruzione del tempio e la sua ricostruzione in tre giorni operata
da Gesù stesso (2, 18-21).
Luca prosegue con il
celebre episodio di Emmaus. Due discepoli, uno di nome Cleopa e
l'altro non identificato, si stanno recando da Gerusalemme al
villaggio di Emmaus distante undici chilometri. Gesù si avvicinò a
loro: “essi però non lo riconobbero, perchè i loro occhi erano
come accecati” (24,16). Fingendo di non sapere che cosa era
successo a Gerusalemme negli ultimi giorni, li indusse a metterlo al
corrente. Stupiti della Sua ignoranza dei fatti, raccontarono gli
avvenimenti della Risurrezione, dal sepolcro vuoto all'apparizione ad
alcune donne “del loro gruppo”. A quel punto Gesù spiegò loro
con autorità le Scritture che predicevano tali avvenimenti. Stupiti
da tale sapienza, lo invitarono a trattenersi con loro a Emmaus.
Mentre cenavano, Gesù prese il pane, pronunciò la preghiera di
benedizione, lo spezzò e lo distribuì: “In quel momento gli occhi
dei due discepoli si aprirono e riconobbero Gesù, ma lui sparì
dalla loro vista” (24,31).
Allora tornarono a
Gerusalemme dagli undici discepoli e il loro racconto fu creduto
poiché Gesù era già apparso a Pietro.
Diverse sono le
considerazioni suggerite da questo passo.
In primo luogo si noti la
precisazione del nome di Cleopa, personaggio che non compare in
nessun altro episodio dei quattro Vangeli. Evidentemente Luca si
rivolge ai contemporanei, non scrive per la storia. Dà per scontato
che tale persona sia conosciuta nella comunità dei primi discepoli
di Gesù. Ciò sottolinea l'aspetto di cronaca divulgativa che i
Vangeli hanno nel loro insieme.
Luca evidenzia, infatti,
come i due discepoli rimangano fortemente sorpresi che Gesù non
sappia nulla di quanto accaduto, tanto da ritenerlo l'unica persona
ignara degli eventi. Ciò indica che gli episodi da loro narrati
avevano già raggiunto una vasta diffusione presso la popolazione di
Gerusalemme.
Si noti, quindi, come,
nonostante il tempo passato insieme, i discepoli non riconoscano
Gesù. Luca fornisce una interpretazione soggettiva: “i loro occhi
erano come accecati” e si aprirono davanti al gesto di spezzare il
pane. Potrebbero averlo riconosciuto nell'atto eucaristico
dell'Ultima Cena a cui, però, nessuno dei due sarebbe stato
presente, né Cleopa, né l'altro discepolo che non faceva parte
degli undici apostoli rimasti. La loro “cecità” potrebbe essere
dovuta ad un intervento divino come avviene nel Libro dell'Esodo: “ma
il Signore rese ostinato il cuore del faraone, il quale non diede
loro ascolto, come il Signore aveva predetto a Mosè” (Esodo,
9,12). Tuttavia, Gesù sparì dalla loro vista in modo subitaneo
aprendo l'ipotesi che Egli avesse acquisito con la Risurrezione un
nuovo corpo che possedeva potenzialità sconosciute a quello
precedente, come la capacità di apparire, scomparire, trasformarsi.
A questo proposito
appaiono molto significative le parole di San Paolo circa la
Risurrezione dei corpi: esiste il corpo animale che va incontro al
decadimento, ma dopo la morte il corpo dei risorti verrà trasformato
in un corpo spirituale destinato a vita eterna (1 Corinzi). Diversi
sono i concetti di rinascita (il corpo torna in vita come avviene nei
miracoli descritti nei Vangeli: Lazzaro, il figlio della vedova di
Nain, la figlia di Giairo) e quello di Risurrezione, di vita dopo la
morte in cui il corpo risorto può avere caratteristiche e
potenzialità diverse da quelle terrene.
Su come tutto ciò possa
avvenire è forse meglio sospendere ogni interrogativo, evitare di
costruire teologie non supportate dalla Rivelazione Evangelica, ma,
piuttosto riferite alla filosofia di origine greca. Appare più
saggio seguire la constatazione di Erasmo da Rotterdam che il Vangelo
è più rivolto a fornire una guida su come preparare in questa vita
quella dell'Aldilà sulla quale appare piuttosto reticente.
Luca prosegue la sua
narrazione scrivendo che mentre gli undici apostoli ed i due
discepoli di Emmaus stavano ancora parlando di queste cose “Gesù
apparve in mezzo a loro”.
“Sconvolti e pieni di
paura, essi pensavano di vedere un fantasma. Ma Gesù disse loro:
perchè avete tanti dubbi dentro di voi? Guardate le mie mani e i
miei piedi! Sono proprio io! Toccatemi e verificate: un fantasma non
ha carne e ossa come vedete che ho io” (24, 37-39).
Gesù mostrava intanto le
mani e i piedi. “Essi però, pieni di stupore e gioia, non
riuscivano a crederci: era troppo grande la loro gioia!” (24, 41).
Allora Gesù mangiò davanti a loro un pesce arrostito.
Fatto ciò, iniziò a
spiegare loro in modo più compiuto quanto in vita aveva detto circa
la Sua Risurrezione, invitandoli a portare a tutto il mondo il Suo
messaggio essendo stati testimoni di tutti i fatti avvenuti.
Ancora una volta la prima
reazione è di stupore, paura, incredulità. Sono convinti di vedere
un fantasma. Questa volta accade un fatto nuovo: allo stupore si
aggiunge la gioia. Non riescono a credere, ma è il non credere ai
propri occhi per la gioia. E' il “non ci posso credere” che
significa l'esatto contrario: sei proprio Tu! A ciò si aggiunga la
spiegazione fornita da Gesù sulle predizioni circa la Propria
Risurrezione una volta avvenuto il fatto. Finalmente ora è tutto
chiaro e vero.
Qui sembra essere
avvenuto quel cambiamento che ha trasformato la storia. Gli apostoli
vedono e credono e da quel momento acquistano forza, coraggio,
entusiasmo per affrontare il mondo nel nome di Gesù.
Si noti questa umanissima
reazione di passaggio dalla paura alla gioia. Non c'è nessun tono
agiografico, solo una descrizione dei fatti così come sono avvenuti,
come può essere evidenziato da questa naturalissima reazione
assolutamente spiegabile tramite la psicologia.
Luca non era presente ai
fatti e li riporta come gli sono stati raccontati. Egli non era
ebreo. Non si sa dove fosse nato, ma risulta che fosse di lingua
madre greca. La Palestina dei tempi di Gesù era inserita nell'ampio
tessuto culturale dell'ellenismo che, dopo la conquista da parte di
Alessandro il Grande, era diffusa in tutta la parte orientale
dell'impero romano e non solo in questa, considerato che dopo la
conquista della Grecia, la stessa Roma ne aveva assorbito cultura e
filosofia.
A questo proposito appare
opportuna una precisazione. Nella filosofia greca vi era una netta
distinzione fra corpo e anima, concezione che troviamo nella cultura
moderna e nelle stesse religioni cristiane dopo secoli di
speculazioni teologiche. Non era così nella cultura ebraica anche se
con l'avvento dell'ellenismo questa si era aperta nelle sue correnti
più dotte all'influenza della filosofia greca. Nell'ebraismo
originario una tale distinzione non esisteva. Il corpo fisico era
tenuto in vita dal “soffio vitale”, derivante da Dio stesso, che
potremmo considerare un equivalente dell'energia biologica. Non
sopravvive al corpo, come succede all'anima, concezione che a partire
dalla filosofia greca è giunta fino alla nostra. Tale soffio diventa
in latino “spiritum”, parola che rappresenta una forma di
passaggio fra “respiro” e “anima”.
La parola “fantasma”
corrisponde nell'originale greco a “pneuma”, indicante, appunto,
“soffio”, “respiro”. Sembra che a questo proposito Luca abbia
compiuto uno sforzo linguistico per attenersi alla concezione
ebraica. In greco esiste la parola “fantasma” tradotta in vari
modi: fantasma, larva, spettro, visione, prodigio, parvenza,
apparenza, immagine.
Vangelo secondo San
Giovanni
Anche Giovanni, come i
tre sinottici, narra che Giuseppe di Arimatea, dopo avere chiesto il
permesso a Pilato di prendere il corpo di Gesù, procedette alla
sepoltura. Giovanni aggiunge alle altre narrazioni che anche Nicodemo
vi prese parte portando un'anfora pesantissima piena di mirra con
aloe. Vicino al luogo della crocefissione vi era un giardino con una
tomba vuota e qui fu deposto il corpo di Gesù avvolte nelle bende
con i profumi.
A questo proposito è
stato osservato che la precisazione circa un'anfora pesantissima
lascerebbe pensare che alla sepoltura abbiano partecipato più
persone, la cui presenza era resa necessaria dalla preparazione del
corpo stesso, avvolto nella bende e dalla chiusura del sepolcro con
una pietra. Difficilmente una o due persone sarebbero state
sufficienti.
Similmente agli altri
evangelisti, Giovanni passa al racconto della Risurrezione senza
nessun salto di stile narrativo.
“Il primo giorno della
settimana, la mattina presto Maria di Magdala va verso la tomba,
mentre è ancora buio, e vede che la pietra è stata tolta
dall'ingresso” (20, 1). Corre da Pietro e da Giovanni, che si
definisce come il discepolo prediletto da Gesù, e dice che hanno
portato via il Signore dalla tomba e non si sa dove sia stato messo.
Entrambi corrono. Giovanni arriva per primo, ma lascia che sia Pietro
ad entrare e vede le bende in terra ed il lenzuolo che gli copriva la
testa piegato da un'altra parte rispetto alle bende. Quindi anche
Giovanni entra, anche lui vede e specifica “vide e credette”,
narrando in terza persona, aggiungendo: “Non avevano ancora capito
quello che la Bibbia dice, cioè che Gesù doveva risorgere dai
morti” (20,9).
Ho verificato
personalmente partendo dalla versione originale in greco, vocabolario
alla mano, quanto osservato da alcuni (Messori, Persili). Una
traduzione più aderente al testo originale descrive le bende
“distese”, “appiattite”, integre, come se non avvolgessero
più il corpo di Gesù. Giovanni fornisce, inoltre, un particolare
apparentemente insignificante: il lenzuolo o sudario che gli copriva
il capo era piegato, o meglio “avvolto” secondo una traduzione
più esatta, in un luogo distante dalla bende. In poche, sintetiche
parole, Giovanni ci descrive una situazione molto particolare: le
bende sono rimaste integre mentre il lenzuolo sembra essere stato
sbalzato lontano. Infatti, vide e credette non per quello che non
aveva visto, cioè il corpo di Gesù, ma per un fatto giudicabile
come miracoloso. La versione della Bibbia curata da G. Luzzi,
definisce le bende “giacenti”, traduzione più accurata, ma
piuttosto vaga.
Rispetto agli altri
racconti evangelici, qui non ci sono incertezze, timori, dubbi, ma
una verifica dei fatti che testimonia la verità. Vide e credette e
comprese in quell'istante, insieme a Pietro, il valore delle
predizioni circa la Risurrezione e solo dopo i discepoli si
ricordarono e compresero pienamente le parole di Gesù: “quando poi
fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che egli
aveva detto questo, e credettero alle parole della Bibbia e a quelle
di Gesù” (2, 22). E' assolutamente credibile e spiegabile dal
punto di vista psicologico che una predizione di Risurrezione dai
morti risultasse difficilmente comprensibile e, quindi, facilmente
dimenticabile. Una volta avvenuto il fatto, tutto diviene
improvvisamente chiaro. In questo caso la fede è prima di tutto
fiducia.
Giovanni prosegue il suo
racconto. Maria Maddalena deve avere seguito i due apostoli poiché
la ritroviamo piangente vicino alla tomba. Le appaiono due angeli con
cui ha un breve scambio di parole. Quindi, voltandosi, vede Gesù, ma
non lo riconosce pensando che sia il giardiniere. Gesù le chiede
perchè piange, chi sta cercando. Maria Maddalena ha il dubbio che
sia stato proprio lui ad avere portato via il corpo di Gesù. Solo
quando Gesù la chiama per nome “Maria!”, lo riconosce.
“Gesù le disse.
Lasciami, perchè io non sono ancora tornato al Padre. Va' e dì ai
miei fratelli che io torno al Padre mio e vostro, al Dio mio e
vostro” (20, 17). Così lei fa annunciando agli apostoli di avere
visto il Signore.
Anche in questo racconto
bisogna notare che Gesù non viene riconosciuto subito, ma solo dopo
avere compiuto un gesto, in questo caso chiamando per nome Maria
Maddalena.
Segue la nota frase che
inizia con la famosa espressione, soprattutto in latino, “noli me
tangere”. La traduzione “non mi toccare” appare di difficile
interpretazione e molti preferiscono tradurre con “non mi
trattenere” o “lasciami”. In ogni caso si può ipotizzare che
Gesù faccia riferimento ad una sua condizione “corporea” diversa
da quella antecedente la Risurrezione, come abbiamo già visto e come
avremo modo di considerare ulteriormente.
Il Vangelo secondo
Giovanni prosegue: “La sera di quello stesso giorno, il primo della
settimana, i discepoli se ne stavano con le porte chiuse per paura
dei capi ebrei. Gesù venne, si fermò in piedi in mezzo a loro e li
salutò dicendo ' la pace sia con voi '. Poi mostrò ai discepoli le
mani e il fianco, ed essi si rallegrarono di vedere il Signore”
(20, 19-20).
Qui non c'è nessuna
reazione di stupore né di paura, ma di gioia. A questo riguardo si
può notare che Giovanni avrebbe scritto il suo Vangelo in tarda età
e, quindi, più lontano rispetto agli avvenimenti narrati. I
sentimenti di segno negativo possono essere stati dimenticati o
tralasciati. Tuttavia, è opportuno osservare, anche se Giovanni non
si sofferma su tale dettaglio, che la reazione dei discepoli avviene
dopo che Gesù mostra loro i segni del Suo martirio.
Giovanni specifica che le
porte erano chiuse e Gesù appare ai discepoli con il corpo così
come è stato sepolto dopo la crocefissione. Giovanni è preciso e
sintetico nella sua narrazione. Non sembra avere bisogno di spiegare
che il corpo di Gesù è lo stesso di prima, ma non è più lo
stesso, ha delle potenzialità che prima non esistevano.
Il tema dell'incredulità
ritorna nel famoso episodio di San Tommaso.
“Uno dei dodici
discepoli, Tommaso, detto Gemello, non era con loro quando Gesù era
venuto. Gli altri discepoli gli dissero ' abbiamo veduto il Signore
'. Tommaso replicò ' se non vedo il segno dei chiodi nelle sue
mani, se non tocco con il dito il segno dei chiodi e se non tocco con
la mia mano il suo fianco, io non crederò '. Otto giorni dopo, i
discepoli erano di nuovo lì, e c'era anche Tommaso con loro. Le
porte erano chiuse. Gesù venne, si fermò in piedi in mezzo a loro e
li salutò 'la pace sia con voi '. Poi disse a Tommaso ' metti qui il
dito e guarda le mani; accosta la mano e tocca il mio fianco. Non
essere incredulo, ma credente! '. Tommaso gli rispose ' mio Signore e
mio Dio! '. Gesù gli disse ' tu hai creduto perchè hai visto; beati
quelli che hanno creduto senza avere visto! ' “ (20, 24-29).
L'episodio, riportato
integralmente, non ha bisogno di commenti.
Ci si limita ad osservare
che è identica la descrizione dell'apparizione di Gesù, saluto
compreso, e con la precisazione delle porte chiuse. Tommaso vede con
i propri occhi il corpo di Gesù ed esprime la certezza della propria
fede. Con questo episodio Giovanni sembra affermare in modo deciso
che la predicazione dei discepoli circa la Risurrezione di Gesù e
del Suo essere Dio nasce da una realtà storica, nel senso che
appartiene alla storia dell'umanità fatta di avvenimenti realmente
accaduti.
Dopo una prima
conclusione, il Vangelo di Giovanni prosegue con due ulteriori
episodi.
Pietro, Tommaso,
Nataniele, Giovanni, Giacomo e altri due discepoli stavano pescando
sul lago di Tiberiade. Gesù si presentò sulla riva, chiese se
avevano del pesce ed alla loro risposta negativa, disse di gettare la
rete dal lato destro della barca. Allora pescarono molti pesci e
Giovanni riconobbe Gesù. Lo raggiunsero sulla riva e mangiarono
insieme. Gesù diede loro pane e pesci. Nessuno di loro osava
chiedere “chi sei'” perchè sapevano che era il Signore. Giovanni
precisa che questa fu la terza apparizione di Gesù ai discepoli dopo
la Risurrezione.
Il secondo episodio,
conosciuto come la “Riabilitazione di Pietro” è un dialogo fra
questi e Gesù di notevole importanza teologica, ma che esula dalla
presente ricerca. Ci interessa la parte finale in cui Gesù predice
che Giovanni sarebbe vissuto molto a lungo. Quando Giovanni scrive il
suo Vangelo, tale predizione è probabilmente già avverata. Nella
seconda e ultima conclusione del Vangelo, Giovanni attesta di essere
proprio lui l'autore di questo Vangelo, essendo il discepolo a cui
Gesù si riferiva parlando a Pietro.
Atti degli Apostoli
Negli Atti degli Apostoli
si trovano cinque importanti discorsi di Pietro in cui egli parla
della Risurrezione.
Sono tutti discorsi
pubblici. I primi due sono rivolti al popolo di Gerusalemme: il
giorno della Pentecoste e poi al Tempio davanti ad una folla
radunatasi in seguito alla guarigione di uno storpio operata da
Pietro stesso insieme a Giovanni.
Il terzo, sempre in
compagnia di Giovanni ed il quarto, con tutti gli apostoli, avvengono
in un ambiente ostile davanti al sinedrio dove erano presenti molte
persone che avevano giudicato Gesù stesso.
Il quinto è pronunciato
in casa di Cornelio, un ufficiale romano convertitosi al
cristianesimo, alla presenza di pagani ed ebrei.
Questi sono i passi
riferiti alla Risurrezione.
- “Quest'uomo, secondo
le decisioni e il piano prestabilito da Dio, è stato messo nelle
vostre mani e voi, con la complicità di uomini malvagi, lo avete
ucciso inchiodandolo a una croce. Ma Dio l'ha fatto risorgere,
liberandolo dal potere della morte. Era impossibile infatti che Gesù
rimanesse schiavo della morte” (2, 23-24).
- “Voi avete fatto
condannare il Santo e il Giusto e avete preferito la liberazione di
un criminale. Così avete messo a morte Gesù, che dà la vita a
tutti. Ma Dio lo ha fatto risorgere dai morti e noi tutti ne siamo
testimoni” (3, 14-15) dove “tutti” si riferisce agli Apostoli.
“Fratelli, so bene che
voi e i vostri capi avete agito contro Gesù senza sapere quello che
stavate facendo. Ma Dio, in questo modo, ha portato a compimento
quello che aveva annunciato per mezzo dei profeti e cioè che il
Messia doveva soffrire” (3, 17-18).
- Davanti al sinedrio
Pietro intende spiegare la guarigione dello storpio. “Ebbene, una
cosa dovete sapere, voi e tutto il popolo d'Israele: quest'uomo sta
davanti a voi guarito, perchè abbiamo invocato il nome di Gesù
Cristo, il Nazareno, quel Gesù che voi avete messo in croce e che
Dio ha fatto risorgere dai morti” (4, 10).
- Il quarto discorso è
ancora rivolto al sinedrio. Sono presenti tutti gli apostoli.
Probabilmente parla solo Pietro, ma anche gli altri sembrano
partecipare attivamente in base a quanto Luca riferisce. “In
risposta Pietro e gli apostoli dissero: si deve obbedire a Dio
piuttosto che agli uomini. Il Dio dei nostri padri ha risuscitato
Gesù che voi avete ucciso sospendendolo al legno. Dio però lo ha
innalzato alla sua destra come guida e salvatore par dare a Israele
la grazia della conversione e della remissione dei peccati. Di questi
fatti siamo testimoni noi e lo Spirito Santo che Dio ha dato a coloro
che gli obbediscono” (5, 29-32).
- “Del resto, noi siamo
testimoni di tutto quello che Gesù ha fatto nel paese degli Ebrei e
a Gerusalemme. Lo uccisero mettendolo in croce, ma Dio lo ha fatto
risorgere il terzo giorno e ha voluto che si facesse vedere non a
tutto il popolo, ma a noi scelti da Dio come testimoni. Infatti dopo
la sua risurrezione dai morti noi abbiamo mangiato e bevuto con lui,
poi egli ci ha comandato di annunziare al popolo e di proclamare che
egli è colui che Dio ha posto come giudice dei vivi e dei morti”
(10, 39-42).
Luca riferisce che dopo
la Risurrezione Gesù apparve agli Apostoli per quaranta giorni
dopodiché ascese al cielo (1, 3). Dieci giorni più tardi, durante
la festa della Pentecoste, con la discesa dello Spirito Santo “sui
credenti riuniti nello stesso luogo” (2, 1-4), Pietro proclama con
viva forza che Gesù è risorto “e noi tutti ne siamo testimoni”.
Quale cambiamento si è
verificato rispetto allo stupore, all'incredulità, al timore dei
primi giorni. Gesù non è più con i suoi discepoli, ma Pietro,
facendosi portavoce di tutti gli Apostoli (il posto di Giuda era
stato preso da uno dei discepoli, Mattia, 1, 26) esce allo scoperto,
in pubblico, per proclamare solennemente e con coraggio, nelle
quattro occasioni prese in esame, la Risurrezione di Gesù Cristo.
Appare importante sottolineare l'affermazione di testimonianza
diretta di avere mangiato e bevuto con lui.
Secondo un approccio
psicologico si possono senz'altro fornire molte spiegazioni di questo
cambiamento, come si preciserà nelle conclusioni. Tuttavia, dal
punto di vista del metodo scientifico, quando si hanno a disposizione
diverse ipotesi, occorre partire dalla più semplice: tale sicurezza
proviene dalla certezza che quanto proclamato è realmente accaduto.
Ciò appare rinforzato
dall'affermazione che Gesù è apparso non a tutti, ma solo a coloro
che Dio aveva scelto come testimoni. Quale sincerità si può
ravvisare in questa frase pronunciata pubblicamente. Ancora una volta
si può ribadire che non è così che si mente.
Ad ulteriore rinforzo di
ciò si riporta un significativo passo degli atti degli Apostoli che
non necessita di commenti. “I membri del tribunale ebraico erano
davvero stupiti della franchezza con la quale Pietro e Giovanni
parlavano, tanto più che si trattava di persone semplici e senza
cultura, e avevano dovuto riconoscere che erano stati seguaci di
Gesù. In presenza di quell'uomo guarito, che stava accanto a loro,
non sapevano che cosa dire. Fattili allontanare dal tribunale si
consultavano fra loro dicendo: che facciamo a questi uomini? Il segno
avvenuto attraverso loro è evidente ed è noto a tutti gli abitanti
di Gerusalemme e ci è impossibile negarlo” (4, 13-16).
E' possibile che Luca
abbia avuto tali informazioni da Nicodemo, Giuseppe di Arimatea e
anche Paolo di Tarso.
Il secondo discorso
davanti al sinedrio offre l'occasione per importanti riflessioni.
Nonostante l'ostilità
del sinedrio che ha proceduto a incarcerare gli apostoli, le loro
parole dimostrano un coraggio crescente ed una sempre maggiore
consapevolezza della missione di Gesù.
Si può notare la
precisazione “il Dio dei nostri padri”, cioè lo stesso Dio a cui
è rivolta la fede di tutti i giudei.
Gesù è guida e
salvatore per il popolo d'Israele per ricevere “la grazia della
conversione e la remissione dei peccati”. In particolare
quest'ultima espressione ripete le parole stesse di Gesù pronunciate
durante l'ultima cena. Questo ed altri passi dimostrano come la
riflessione comunitaria conduca gradualmente, ma rapidamente ad una
comprensione della missione e della persona di Gesù: solo Dio può
rimettere i peccati.
Inoltre, ne sono
testimoni non solo gli apostoli, ma lo Spirito Santo inviato a chi
obbedisce a Dio.
Si può notare un salto
di qualità in questo discorso. Gli apostoli non si limitano a
difendersi proclamando un fatto, la Risurrezione di Gesù, ma
manifestano una crescente presa di coscienza della sua vita e delle
sue parole, dialogando da pari a pari con il sinedrio, anzi con
un'autorità maggiore sentendosi illuminati dallo Spirito Santo.
Negli Atti degli Apostoli
sono riportati anche tre racconti dell'apparizione di Gesù a San
Paolo; uno in terza persona (9, 3-18) e due con le parole
dell'apostolo stesso (22, 6-10; 26, 12-18). Sono fra loro
sovrapponibili, ma il più completo appare quello pronunciato davanti
al re Agrippa, figlio di Erode Agrippa, e a sua sorella Berenice.
Recandosi a Damasco per
la sua attività di persecuzione dei cristiani, autorizzata dai capi
dei sacerdoti, in pieno giorno vide una luce che scendeva dal cielo,
più forte del sole, che sfolgorava intorno a lui ed ai suoi
compagni.
“Tutti cademmo a terra
e io sentii una voce in ebraico che diceva: Saulo, Saulo, perché mi
perseguiti?Perché ti rivolti come fa un animale quando il suo
padrone lo pungola? Io domandai: chi sei Signore? Allora il signore
rispose: io sono Gesù che tu perseguiti. Ma ora alzati e sta' in
piedi. Tu mi renderai testimonianza dicendo quello che hai visto oggi
e proclamando quello che ti rivelerò ancora. Ti libererò da tutti i
pericoli, quando ti manderò dagli ebrei e dai pagani” (26, 14-17).
Gesù aggiunge ancora che
la sua missione sarà di aprire i loro occhi e quelli che crederanno
in Lui avranno il perdono dei peccati e faranno parte del popolo
santo.
A seguito di questa
apparizione Paolo perse la vista che ricuperò alcuni giorni dopo a
Damasco affidato alle cure di un fedele di nome Ananìa. In
quell'occasione fu battezzato.
Si può notare che la
luce fu vista da tutti, ma solo Paolo udì la voce, anche se nel
primo racconto afferma che anche la voce fu udita da tutti, mentre
nel secondo lo nega. Si può ragionevolmente pensare che la voce fu
udita, ma i presenti non ne distinsero le parole. Ciò sembrerebbe
confermato dal racconto reso in terza persona (9, 3-18) dove Luca
afferma che “udivano il suono della voce”, significando con ogni
probabilità una percezione indistinta (9, 7).
Lettere di San Paolo
San Paolo ha sviluppato
una importante teologia della Risurrezione, ma quanto ci interessa
evidenziare in questa sede sono le notizie che fornisce circa il suo
“incontro” con Gesù risorto.
L'apparizione di Gesù a
Paolo è descritta tre volte negli “Atti degli Apostoli” ed in
due di queste viene riportata la narrazione con le parole
dell'apostolo stesso (9, 3-8; 22, 6-10; 26, 12-18).
Nella prima Lettera ai
Corinzi Paolo afferma che Gesù è apparso a Pietro e ai dodici
apostoli: “quindi a più di cinquecento discepoli riuniti insieme.
La maggiore parte di essi è ancora in vita, mentre alcuni sono già
morti. In seguito è apparso a Giacomo, e poi a tutti gli apostoli.
Dopo essere apparso a tutti costoro, alla fine è apparso anche a me,
benché io, tra gli apostoli, sia come un aborto. Infatti, io sono
l'ultimo degli apostoli; non sono neanche degno di essere chiamato
apostolo, perché ho perseguitato la chiesa di Dio” (15, 6-9).
Questa descrizione
riporta un fatto che non è riferito in nessun altro passo del Nuovo
Testamento: l'apparizione a più di cinquecento discepoli. E' stato
notato che Paolo sottolinea che molti di loro sono ancora in vita. Si
può ipotizzare che queste persone fossero conosciute alla prima
comunità di fedeli e, forse, se ne tenesse un elenco aggiornato,
tenendo conto di quanti nel frattempo deceduti. Paolo appare assai
informato fornendo una notizia non altrimenti riportata e si sente
investito dell'autorità di riferirla.
Si noti ancora che tutte
la apparizioni di Gesù riportate nei Vangeli sono rivolte a
discepoli che non solo lo conoscevano, ma potevano riconoscerLo anche
grazie agli occhi illuminati dalla fede che permettevano di superare
difficoltà già illustrate. Non si sa se fra i cinquecento e più
discepoli ve ne fossero alcuni che tali erano diventati a seguito
della predicazione degli apostoli, senza avere incontrato di persona
Gesù.
Certamente Paolo non era
un discepolo, anzi era un persecutore dei primi fedeli, inseguendoli
anche fuori della Palestina, fino a Damasco sulla cui via si è
manifestata l'apparizione di Gesù.
Paolo usa parole di
grande umiltà, ma non ha dubbi, come riportato dalle descrizioni
riferite negli “Atti” di avere avuto un incontro con Gesù
risorto con caratteristiche identiche a quelle degli altri discepoli
fra cui gli undici apostoli.
Nella stessa lettera egli
giunge ad affermare: “non sono libero io? Non sono forse apostolo?
Non ho veduto Gesù , il nostro Signore? E voi, non siete proprio voi
il risultato del mio lavoro al servizio del Signore? Se altri non
vogliono riconoscermi come apostolo, per voi lo sono senz'altro. Il
fatto che voi crediate in Cristo è la prova che io sono apostolo”
(9, 1-2).
Paolo lascia intendere
che esistevano a suo riguardo dei contrasti all'interno della prima
comunità di credenti. Eppure il suo ragionamento ha una forza che
difficilmente potrebbe avere se Paolo nutrisse dei dubbi circa la
realtà del suo incontro con Gesù o, ancora peggio e da considerarsi
ipotesi impossibile, fosse in malafede.
La certezza della
chiamata da parte di Gesù è tale che dopo la conversione non chiese
consiglio a nessuno e solo dopo tre anni si recò a Gerusalemme per
confrontarsi con gli apostoli, incontrando solo Pietro e Giacomo: “ma
Dio decise di rivelarmi suo Figlio, perchè lo facessi conoscere fra
i pagani. Nella sua bontà, già prima della mia nascita, mi aveva
destinato a questo incarico e poi mi chiamò. Allora non chiesi
consiglio a nessuno. Non mi recai nemmeno a Gerusalemme da coloro che
erano stati apostoli prima di me, ma andai subito in Arabia. Poi
tornai direttamente a Damasco. Solo tre anni dopo andai a Gerusalemme
per conoscere Pietro e non vidi nessuno degli altri apostoli, a
eccezione di Giacomo, il fratello del Signore” (Galati 1, 15-19).
Quattordici anni più
tardi, a seguito di una rivelazione, non ulteriormente specificata,
si recò nuovamente a Gerusalemme per illustrare la sua predicazione
presso i pagani.
Tali visite a Gerusalemme
sembrerebbero motivate dal bisogno di appianare eventuali divergenze
e dimostrare la sua appartenenza al nucleo della chiesa nascente al
fine di tacitare incomprensioni e contrasti che sorgevano proprio
dalla sua predicazione rivolta ai pagani.
Nel terzo racconto della
sua conversione riportato negli “Atti”, Paolo precisa che Gesù
gli aveva detto di diffondere il Suo messaggio presso i pagani
rendendolo universale ed in questo egli ravvisa la specificità della
sua missione.
Sulla base di questi dati
appare più difficile tentare una ricostruzione storico-psicologica
dei fatti narrati rispetto ai Vangeli. Tuttavia, tenendo conto
dell'opera di Paolo nella sua globalità, appare difficile ipotizzare
che egli non basasse la sua predicazione sulla certezza di un vissuto
esistenziale realmente accaduto.
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
Sui Vangeli è stato
scritto di tutto ed il contrario di tutto.
E' stato sostenuto che
sono frutto di pura fantasia e non hanno nessun valore né storico né
religioso.
Si è considerata la
possibilità che siano stati scritti senza nessuno aderenza ad una
realtà storica, ma che, comunque, abbiano un valore religioso in
quanto ispirati da Dio stesso. E' stato anche ipotizzato che esista
una discordanza fra il Gesù storico e il Gesù narrato dagli
evangelisti.
E' opinione sostenuta da
alcuni che i racconti riferiti alla Risurrezione siano stati
inventati a seguito di un fenomeno di suggestione collettiva da parte
dei discepoli di Gesù che hanno creduto in quello che volevano
credere sulla base di qualche episodio allucinatorio o di estasi
isterica. La delusione per una fine giudicata ingloriosa ha spinto i
suoi discepoli, o alcuni di essi, ad inventare un seguito che
permettesse loro di vivere in funzione del Maestro, diventato con il
passare del tempo Messia, Figlio di Dio, Dio stesso: un'avventura
così coinvolgente, entusiasmante non poteva finire così, nel nulla.
C'è, evidentemente, chi
sostiene che è tutto vero, realmente accaduto, ma può essere solo
oggetto di fede. Ogni approccio tramite la ragione è inutile e
controproducente. Ogni ricerca scientifica sarebbe impossibile o
rappresenterebbe quasi una mancanza di rispetto nei confronti di
Gesù, in quanto si può asserire che la scienza nasce dal dubbio o
in questo, comunque, affonda le sue radici. Un approccio scientifico
rischierebbe di confondere le certezze su cui i fedeli basano il
proprio credo.
Un fatto simile sarebbe
accaduto con la filosofia scolastica che, cercando di analizzare la
Rivelazione tramite la filosofia, in particolare quella greca, ha
talora creato opinioni e dogmi estranei al messaggio del Vangelo.
Erasmo da Rotterdam era
favorevole all'uso della ragione, ma invitava ad usarla in modo molto
discreto, evitando di erigere sulla base di questa opinioni
dogmatiche. Era del parere che la lettura e la comprensione del
Vangelo non fossero un fatto statico, stabilito una volta per tutte,
ma dinamico in relazione all'evoluzione della storia dell'umanità.
Un esempio può essere
fornito dall'opinione di Küng.
Nel Medio Evo il centro di interesse era sulla natura di Dio e delle
tre Persone componenti la Trinità. Oggi l'attenzione è maggiormente
rivolta alla relazione intercorrente fra le tre Persone al loro
interno e nei confronti dell'umanità: Dio Padre, al di sopra di me,
indica la via; Gesù, mio fratello mi è accanto, compagno di
viaggio; lo Spirito Santo mi sostiene dentro di me.
Ritornando al filone
principale di questo scritto, ci si unisce a quanti considerano
l'indagine scientifica non antitetica alla fede, ad essa non
sostituibile, ma un utile strumento di sostegno per un credo
illuminato e dinamico, aperto alla discussione ed al confronto.
Non si vuole tornare a
quanto già detto e più volte ribadito nella pagine precedenti,
limitandosi a ricordare che l'analisi degli aspetti psicologici, per
quanto possibile, evidenziabili dalle caratteristiche delle
narrazioni e dallo stile narrativo dei racconti concernenti la
Risurrezione, indica che i discepoli non erano preparati
all'esperienza dell'incontro con Gesù risorto ed a confrontarsi con
potenzialità del Suo corpo che in vita si erano manifestate nella
Trasfigurazione, a cui avevano assistito solo tre apostoli, Pietro,
Giovanni e Giacomo (Matteo 17, 1-9; Marco 9, 2-9; Luca 9, 28-36) e
nel camminare sulla superficie dell'acqua (Matteo 14, 22-32; Marco 6,
45-51; Giovanni 6, 16-21).
Non avevano compreso il
significato delle parole di Gesù sulla Sua Risurrezione e,
probabilmente, numerosi altri aspetti della Sua predicazione e delle
Sue opere come testimonia proprio Marco a proposito del camminare
sulle acque: “Infatti non avevano capito neppure il miracolo dei
pani: si ostinavano a non capire nulla” (Marco, 6, 52).
A tale proposito appare
opportuno ritornare in modo più completo ed approfondito alla
risposta data da Pietro su sollecitazione di Gesù stesso: “Tu sei
il Messia, il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. In Marco e Luca
troviamo dizioni diverse: “Tu sei il Messia, il Cristo” (Marco 8,
29; “Tu sei il Messia, il Cristo promesso da Dio” (Luca 9, 20).
In primo luogo si può
osservare che una cosa l'avevano capita: Gesù non era uno dei tanti
rabbi che predicarono in quel tempo e prima e dopo di quello in
Palestina. Era molto di più, il Messia promesso da Dio al popolo di
Israele, variamente inteso nelle profezie dell'Antico Testamento
anche perchè spesso espresse con frasi di difficile interpretazione
(Deuteronomio 18, 15; Daniele 7, 13-14). Risulta, d'altronde che Gesù
fosse assai noto e stimato in quanto nell'opinione popolare era
considerato un ritorno in terra di Giovanni Battista, o di Elia o
Geremia o di uno degli antichi profeti come attestano i Sinottici
(Matteo, 16, 14; Marco 8, 28; Luca 9, 19).
Si noti che solo Matteo
aggiunge “il Figlio del Dio vivente”.
Questo ci permette di
avanzare un'ipotesi assai importante per la comprensione su base
psicologica dei Vangeli. Molti hanno sostenuto che la Risurrezione è
il fatto fondamentale per spiegare quel fenomeno unico che è stata
la diffusione del cristianesimo soprattutto nei primi secoli e che
tale fatto doveva essere reale e non immaginario. Nelle pagine
precedenti abbiamo considerato quanto i racconti circa la
Risurrezione risultino attendibili e verosimili. Non è improbabile
che la prima vera presa di coscienza circa l'origine divina di Gesù
sia stata espressa in modo chiaro ed eclatante da Tommaso “mio
Signore e mio Dio!”. La Risurrezione è l'evento che ha aperto gli
occhi ai discepoli di Gesù, ha permesso loro di comprenderne vita,
opere, parole, di dare significato a tante cose che prima risultavano
oscure. La Risurrezione ha causato una reazione di apertura mentale
che ha gettato nuova luce sugli eventi passati. Il Vangelo di Matteo,
come tutto il Nuovo Testamento, è stato scritto dopo la morte e
Risurrezione di Gesù. Un evento nuovo permette di meglio
comprendere i ricordi e dare loro un significato più profondo. Non
vi è nulla di psicologicamente più comprensibili del fatto che
Matteo abbia scritto “Figlio di Dio” solo dopo essere stato
testimone della Risurrezione e delle parole di Tommaso a
completamento del ricordo o rielaborazione dello stesso. Gli altri
Evangelisti si sono maggiormente attenuti ai fatti o non hanno
riportato le parole di Matteo perchè le avevano dimenticate in
quanto non comprese.
Infatti, la Risurrezione
ha catalizzato un processo psicologico ed esistenziale che non si è
certo esaurito in pochi secondi o minuti, ma può avere richiesto
anni. Basti pensare al Vangelo di Giovanni, di molto successivo agli
altri. Si pensi al Prologo o alle seguenti parole di Gesù: “Io non
prego soltanto per questi miei discepoli, ma prego anche per gli
altri, per quelli che crederanno in me dopo avere ascoltato la loro
parola. Fa' che siano tutti una cosa sola: come tu, Padre, sei in me
e io sono in te, anch'essi siano in noi. Così il mondo crederà che
tu mi hai mandato” (17, 20-21).
Uomini che, sia pure dopo
molte incertezze, sono giunti a comprendere la più elevata
concezione di Dio che mai sia stata espressa nella storia, non
possono avere mentito.
A questa conclusioni
giunge la ragione. Si potrebbe obiettare: la ragione di chi scrive.
Obiezione accolta, non potrebbe essere diversamente. Come si era
detto all'inizio, il metodo seguito contiene in se stesso delle
importanti limitazioni ed il materiale da esaminare è estremamente
ampio, ma povero di indicazioni psicologiche esplicite, impossibili
da verificare in quanto risalgono al passato, ad un'epoca da noi
distante, anche se assai vicina agli eventi narrati.
La scienza non fornisce
certezze, ma osservazioni che ne producono altre.
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