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venerdì 27 ottobre 2017

Vedere per credere, credere per vedere

“Beati quelli che hanno creduto senza avere visto!”
San Giovanni (20, 29)

Ora che rientro a pieno titolo nell'età anziana, sento il bisogno di mettere per iscritto un ricordo che risale alla mia infanzia.
Potevo avere nove o dieci anni. Ero un ragazzino timido e introverso e, forse, per questo motivo, mi trovavo nel salotto di casa con i miei genitori che erano in compagnia di un anziano signore, invece di essere fuori per strada a giocare al pallone con i miei coetanei. Nell'ora dell'imbrunire li guardavo dalla finestra, sentivo le loro voci e le loro grida di gioia o di scontento, i loro litigi.
A quell'età mi sentivo più sicuro standomene a casa, anche se poi mi sono sbloccato e di pallonate ne ho tirate e parate, anche se non tutte.
Quella sera, però, era davvero speciale.
Questo signore di cui non ricordo pressoché nulla, era un amico e, credo, collega di mio padre. Vestiva in modo elegante, aveva i capelli bianchi come la neve, parlava con entusiasmo, ma pacatamente, raccontando un episodio recente della sua vita di cui ricordo solo la trama portante.
Pochi giorni prima aveva avuto un pauroso incidente d'automobile. Non ricordo assolutamente i particolari, ma doveva essere stato un fatto davvero grave. La vettura su cui viaggiava da solo era slittata sull'asfalto bagnato o su una macchia d'olio. Fatto sta che aveva perso il controllo e l'automobile sbandando e urtando contro il bordo della strada, aveva capottato diverse volte su se stessa andando poi a sbattere contro un albero o una roccia.
Ricordo i miei genitori ascoltare attenti a non perdere una singola parola di questo racconto narrato in modo vivo e appassionante.
Ne era uscito illeso in modo che considerava miracoloso, mentre l'automobile era praticamente solo più un rottame.
Il particolare più interessante era rappresentato da una macchina fotografica che aveva con sé, non ricordo per quale motivo: se si trovava in viaggio o era appassionato di fotografia o la usava per lavoro, non so.
Fatto sta che alcuni giorni dopo portò a sviluppare il rullino che vi era contenuto.
Anticipando soddisfatto lo stupore che avrebbe suscitato nei miei genitori, porse loro una fotografia. La reazione fu superiore alle sua attese a giudicare dall'intensa gioia che a sua volta manifestò.
Le parole di meraviglia si succedevano, si scavalcavano, si anticipavano nella voce commossa di mio padre e di mia madre.
Non capivo che cosa vi potesse essere di così straordinario da suscitare una reazione simile.
La mia curiosità di bambino era alle stelle.
Non ricordo se fui io a chiedere di vederla o se mi fu data di spontanea volontà da qualcuno dei presenti, sicuramente con l'assenso dell'anziano signore. Certamente mi fu raccomandato di tenerla in mano dai bordi in modo da non sciuparla.
Ancora oggi è viva l'immagine che vidi.
Sono consapevole che il ricordo si può trasformare con il passare degli anni, ma dubito che ciò sia avvenuto in questo caso tanto è rimasto inalterato nella mia memoria quando lo rievoco.
A quel tempo, quando le televisioni erano guaste o non veniva trasmesso nulla, lo schermo in bianco e nero era solo un ammasso confuso e informe di figure come fosse un mosaico senza nessun significato in costante movimento.
La fotografia che osservavo attentamente aveva tale aspetto, eppure vi si distingueva nettamente, senza bisogno che nessuno me lo facesse notare, il volto di Gesù, per lo meno così come lo rappresentano tante immagini pittoriche.
Lunghi capelli neri incorniciavano il volto, in cui nonostante le caratteristiche della fotografia simile a uno schermo televisivo informe, si notavano distintamente gli occhi a palpebre chiuse, il naso, la bocca, le guance e il mento avvolti da una barba non folta.
Mentre guardavo affascinato quel volto ascoltavo la fine del racconto.
Quel signore tanto gentile da avermi concesso di guardare la fotografia tenendola fra le mie mani insicure di bambino, si diceva assolutamente convinto che durante l'incidente, a causa dei continui sobbalzi, la macchina fotografica era scattata da sola e aveva fotografato quel volto la cui presenza testimoniava che essere sopravvissuto indenne, nonostante la gravità del fatto, era senz'altro conseguenza di un miracolo.
Lui ne era certo e felice.
Che cosa pensassero i miei genitori dietro le parole di assenso non lo so, ma ritengo che fossero sinceri, né penso di avere mai conosciuto le convinzioni religiose di quel signore prima di tale episodio.
Mi interessa ricordare che cosa pensavo io.
Non lo ricordo.
Ero un bambino, troppo piccolo per pensare cose troppo grandi.
Che cosa penso ora?
Non lo so.


So solo che voglio sperare che quel giorno, in quell'istante, la macchina fotografica abbia colto quello che non ci è dato di vedere, ma solo credere che, forse, è più che vedere.

giovedì 19 ottobre 2017

Psicoterapia e atteggiamento religioso

Nel percorso psicoterapeutico è assai probabile che emerga la questione dell'appartenenza ad una fede religiosa o, invece, di un atteggiamento ateo o agnostico.
Ciò può avvenire nel tempo in modo sporadico e frammentario, oppure la domanda può esser posta dal paziente al terapeuta in modo improvviso ed inaspettato.
L'opposto non dovrebbe mai accadere a meno che si ponga il sospetto che l'atteggiamento religioso, o la sua negazione, incida in qualche modo sulla sintomatologia riferita.
Tale domanda può essere posta a terapia già avviata e ciò permette al curante di modulare la propria risposta in base alle conoscenze che ha del paziente.
In altri casi può essere chiesta all'inizio del trattamento.
In tale situazione si può domandare al paziente il motivo di tale quesito, ma quale che sia la risposta, è opportuno esplicitare la propria opinione con sincerità.
Modulare la risposta, come si accennava in precedenza, può essere importante per non creare possibili barriere che ostacolino il dialogo. Sono, ad esempio, da evitare frasi nette come “sono cattolico osservante” o “ateo convinto”.
Appare più opportuno, nel caso di un credente, fornire risposte più flessibili del tipo “sono cristiano, o meglio, cerco di essere cristiano, cioè di seguire il sentiero indicato dal Vangelo, anche se la mia fede presenta incertezze e dubbi”.
Tale formulazione, oltre a essere veritiera in ogni circostanza in quanto il dubbio non annulla la fede e, come scrive H. Küng (2012) “la vera critica non annienta la fede, la vera fede non ostacola la critica”, presenta un atteggiamento moderato che non si oppone al dialogo, anzi lo può favorire.



Quanto detto è solo un esempio pratico, rappresenta un'opinione maturata in circa quattro decenni di attività psicoterapeutica.

giovedì 5 ottobre 2017

Unità di vita, parole e opere

Particolarmente illuminanti appaiono le opinioni espresse da H. Küng (2012) circa il Gesù storico.
Citiamo alcune frasi fra quelle chi ci sembrano più significative rispetto al tema anticipato dal titolo di questo aggiornamento.

Gesù vive ciò che dice.
L'insegnamento di Gesù, la sua vita, la sua morte sono una inscindibile unità.
Il messaggio di Gesù è inscindibile dalla sua persona che è ancora viva.
Solo una persona storica agisce anche nel presente.
Solo una persona viva può incoraggiare.
Il cristianesimo è, anzitutto, la persona di Gesù.
Essere cristiani significa seguire un uomo, non un'idea.

Queste parole risultano molto importanti nel percorso di fede e di ricerca psicologica che si intende seguire tramite i vari aggiornamenti pubblicati.


H. Küng (2012). Tornare a Gesù. Rizzoli, Milano, 2014