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lunedì 1 ottobre 2018

Psicologia e Nuovo Testamento. Riflessioni sulla Risurrezione


PREMESSA

Questo saggio è scritto nella convinzione che la vita e la morte di Gesù rappresentino l'apice della storia spirituale dell'umanità, il punto più prossimo a Dio in cui questa si sia mai trovata così tanto che si può ragionevolmente pensare che Dio si sia fatto uomo.
Per i non credenti ci si può limitare ad affermare che Gesù ha manifestato la più elevata concezione di Dio in tutta la storia dell'umanità, così perfetta che non si può immaginare altro da aggiungere.
Chi scrive è medico psichiatra e ritiene, come molti altri uomini di scienza, che il Vangelo possa essere avvicinato e studiato attraverso strumenti scientifici in quanto vi sono narrati fatti storici, nonostante qualcuno ritenga che si tratti, invece, di scritti appartenenti al mondo dell'immaginario, paragonabili a romanzi, anche se si ammette che siano ispirati da Dio stesso. Tuttavia, tale posizione sembra superata dalle più recenti indagini e riflessioni concernenti Il Nuovo Testamento avanzate da studiosi appartenenti a varie discipline.
La storiografia appare in questo caso la scienza di riferimento la quale, oltre a strumenti di indagine propri, si avvale di contributi provenienti da diversi rami del sapere scientifico, come sarà precisato nel corso della trattazione, limitandoci per ora a citare l'archeologia.
Uno di questi, oggetto di questo saggio, è la psicologia, campo assai arato proprio nello studio dei Vangeli come avremo modo di vedere sinteticamente in seguito.
L'obiettivo di questo studio è di ricercare se vi sia una continuità narrativa psicologicamente comprensibile fra i racconti concernenti la vita e, soprattutto la morte di Gesù da una parte e quelli relativi alla Sua Risurrezione.
Questo si impone come un criterio fondamentale per ricercare la veridicità del racconto in quanto chi ha portato la propria testimonianza, si è dovuto confrontare prima con eventi naturali e, in seguito, con qualcosa avente carattere di trascendenza.
Se il secondo aspetto non è stato reale, ma inventato per qualsivoglia ragione, in buona o cattiva fede, si può allora ipotizzare l'esistenza di uno iato, una differenza, una variazione nella narrazione che può essere indagato anche tramite altri approcci come la linguistica e la semeiologia, a loro volta scienze composite.
La scienza non è il campo della verità, non fornisce certezze incrollabili, ma è lo studio del campo delle probabilità. Una ricerca storiografica non ci può dare la certezza che i fatti stiano proprio così come ci sono stati tramandati oralmente o per iscritto, ma ci può fornire elementi per ipotizzare che è probabile e verisimile che determinati eventi si siano svolti così come sono stati narrati. Infatti, alla base della storiografia si pone la testimonianza che si traduce in narrazione.
Nel credo cristiano sono fondamentali nel loro insieme la vita, le opere, la morte di Gesù, ma la Risurrezione rappresenta un indicatore fondamentale circa la Sua filiazione divina come attesta San Paolo: “se Cristo non è risuscitato, vana dunque è la nostra predicazione, e vana pure è la nostra fede” (Prima Lettera ai Corinzi 15, 14). Il termine filiazione può essere accostato a quello di identità come sostenuto nei Vangeli, in modo più o meno diretto, in particolare secondo San Giovanni.
Le riflessioni riportate in questo saggio sono frutto di ricerche condotte grazie ai testi di autorevoli studiosi di varie discipline e non portano un contributo nuovo ed originale, ma, semplicemente, una conferma dal punto di vista della psicologia a quanto da molti già evidenziato tramite altri approcci di indagine.
Chi scrive evita di entrare in merito a questioni teologiche che trascendono i limiti delle sue conoscenze e di invadere altri settori di ricerca che non gli sono propri.
Per non appesantire il testo si è evitato di fare ricorso a note e citazioni tranne quando strettamente necessario per cui si rimanda al lettore il compito, che può risultare utile e creativo, di ricercare in bibliografia i riferimenti relativi ai vari passi del testo.
Si troveranno, invece, alcune ripetizioni che non sono state volutamente eliminate per sottolineare e rinforzare gli aspetti principali di tale saggio.



INTRODUZIONE

Credere per fede, credere per ragione

Fede e ragione hanno suscitato nei secoli dibattiti anche aspri particolarmente all'interno delle religioni monoteiste che riconducono le proprie origini ad una Rivelazione fatta da Dio agli uomini: ebraismo, cristianesimo, islam.
Molto sinteticamente ci si limita ad alcune brevi considerazioni.
Le opinioni che si sono espresse nel tempo sono molto varie, alcune manifestano posizioni dogmatiche, altre appaiono più flessibili.
Il Medio Evo sembra essere stato molto ricco ed acceso a proposito di tale dibattito.
I grandi mistici dell'epoca ricercano una relazione il più possibile vicina a Dio a livello personale. La ragione non è solo inutile, ma anche d'intralcio al cammino di avvicinamento a Dio che solo la fede può permettere a livello di una esperienza interiore e profonda, straordinariamente coinvolgente. Si pensi a Meister Eickhart e Santa Teresa D'Avila.
Per altri fede e ragione si riuniscono in un' unica via praticabile: avvicinarsi a Gesù condividendone la fondamentale scelta di vita: la povertà che si pone al servizio degli altri. Tale è la scelta di San Francesco.
I filosofi scolastici ritengono, invece, che la ragione sia di valido supporto alla fede. La teologia medioevale si confronta con il grande problema di conciliare la Rivelazione della Bibbia con la filosofia greca, da Sant'Agostino a San Tommaso.
Si ricercano anche delle dimostrazioni che la sola ragione può fornire circa l'esistenza di Dio. Celebre è L'Argomento Ontologico di Anselmo d'Aosta: avere il concetto di Dio significa pensare a qualcosa di cui non si può pensare nulla di più grande. Se si pensa ad un Ente che oltre all'idea di Dio possedesse anche la caratteristica dell'esistenza, si penserebbe a qualcosa di più grande di Dio. Quindi, ciò di cui non possiamo pensare nulla di più grande, non può non esistere.
Una posizione intermedia è quella assunta da Erasmo da Rotterdam: l'umanesimo cristiano. Secondo Erasmo il Vangelo è un messaggio rivolto agli uomini per regolare la vita quotidiana sul sentiero indicato da Gesù. Il Vangelo non è un trattato teologico e, infatti, non molto ci rivela sull'Aldilà. Bisogna riconoscere che non tutto è perfettamente interpretabile senza dovere ricorrere a dogmi, ma ciò che non risulta comprensibile oggi, potrà diventarlo domani.
Per Erasmo è importante ricercare nei Vangeli la figura storica di Gesù: la teologia diventa l'antropologia di Gesù.

Scienza e religione

La scienza può essere considerata figlia della ragione e della filosofia in particolare dal momento in cui questa non si è limitata alla speculazione astratta, ma ha iniziato ad applicarsi allo studio della natura, dell'uomo, del cosmo. A cominciare da Galileo per arrivare a Darwin, Marx, Freud, la Chiesa, in particolare quella cattolica, ha visto nella scienza una nemica che metteva in discussione le certezze di fede così come erano scritte nella Bibbia. Il dibattito è talmente conosciuto che riprenderlo in questa sede appare pleonastico.
Da una opposizione totale si è gradualmente giunti ad un atteggiamento più flessibile: religione e scienza appartengono a diverse categorie mentali. La scienza ha messo in discussione molti passi delle Sacre Scritture a partire dalla Genesi. La teologia si è adeguata ammettendo che quanto scritto nella Bibbia non va preso alla lettera, ma rappresenta spesso una metafora attraverso la quale viene espressa la Parola di Dio. Non esiste, quindi, una situazione di conflitto. Non solo non vi è antitesi, ma può esistere una convergenza: se molte certezze della Bibbia sono state criticate, la ricerca scientifica ha potuto, invece, confermare che molti passi delle Sacre Scritture trovano una conferma attraverso il confronto con fonti storiche appartenenti ad altre tradizioni, ad altri popoli o tramite l'archeologia. La scienza, non più nemica, diventa neutrale ed in alcuni casi alleata.
Arriviamo, così, al punto centrale che più ci interessa.
Il cristianesimo si basa sulla fede che il Verbo si è fatto carne, che Dio stesso si è incarnato in un essere umano. Dio stesso è entrato nella storia dell'umanità e con essa ha interagito.
In questo senso il cristianesimo si offre allo studio scientifico secondo i criteri di verificabilità e falsificabilità di moderni orientamenti epistemologici.
A questo punto ci si può chiedere: quale scienza?
Vi è una sola risposta: la storiografia.
Questa consiste nello studio della storia e non è certamente una scienza esatta, ammesso che esista una scienza esatta, concetto, questo, messo in discussione dall'attuale epistemologia derivante dallo studio delle particelle atomiche e dalla loro interazione. Il principio di indeterminazione di Heisenberg scaturisce dal fatto che la scienza attuale ha raggiunto un tale livello di complessità che necessita di apparecchiature tecnologiche le quali permettono la ricerca, ma pongono una tale distanza fra osservatore e osservato tanto che i risultati possono essere alterati dalla tecnologia stessa messa a punto per un determinato studio.
La storiografia si avvale del supporto di altri approcci scientifici: l'etnologia, l'antropologia, l'archeologia, la linguistica, per nominarne solo alcune.
Lo studio della storia concerne fatti unici, irripetibili, irriproducibili in laboratorio, di cui siamo a conoscenza grazie alle testimonianze tramandate per via orale e soprattutto scritta. In questo secondo caso il libro od i libri che narrano un determinato fatto storico sono solitamente redatti molti anni dopo l'avvenimento descritto. Inoltre, fino all'invenzione della stampa i libri erano copiati a mano. Copie di copie si sono succedute nei secoli, sottoposte ad errori involontari o manipolazioni, aggiunte od omissioni, intenzionali.
Ci si vuole limitare ad un solo esempio, la battaglia di Zama avvenuta il 18 ottobre 202 a.C., conclusasi con la vittoria dei romani sui cartaginesi. Di tale battaglia abbiamo diversi resoconti redatti da storici come Polibio e Livio fra i principali. Il primo è vissuto fra il 206 e il 124 a.C. e può avere scritto le sue “Storie” che narrano anche di tale battaglia alcuni decenni dopo che si è svolta. Difficilmente può essere stato un testimone oculare in quanto nel 202 a.C. aveva quattro anni. Qualora fosse stato presente per qualche strano motivo, non avrebbe potuto farne una descrizione precisa e dettagliata come risulta dalla sua narrazione. Evidentemente ha dovuto rifarsi ad una tradizione orale od a manoscritti che non ci sono pervenuti. Livio ha scritto molto più tardi, essendo vissuto fra il 67 a.C ed il 17 d.C.
Nessuno mette in discussione che la battaglia di Zama sia veramente avvenuta e si sia svolta più o meno come è stata descritta. Tuttavia, qualcuno potrebbe sostenere che è stata completamente inventata o è stata narrata in modo diverso rispetto alla realtà. Le descrizioni pervenuteci sono tutte dalla parte dei vincitori. La vittoria romana potrebbe essere stata ottenuta non con una leale battaglia in campo aperto, ma tramite sotterfugi, inganni, tradimenti. In tale caso si rendeva necessario dare alla vittoria una veste bella e dignitosa per nascondere una realtà brutta, vile e indecorosa.
La storiografia, tramite l'ausilio di altre scienze, ha il compito di verificare l'attendibilità delle fonti storiche. Come si può notare anche la scienza ha bisogno di fede, cioè di fiducia sulle testimonianze e sui suoi stessi mezzi di ricerca.
Anticipando quanto avremo modo di vedere dopo, i primi scritti del Nuovo Testamento, in particolare le lettere di San Paolo, sono posteriori di solo due decenni circa rispetto alla morte di Gesù.
Fra le scienze di cui la storiografia si può avvalere vi è anche la psicologia.
Verso la metà del secolo scorso è stato coniato il termine di psicostoria che non ha avuto molto seguito. Si voleva, appunto, concettualizzare l'applicazione della psicologia allo studio della storia con particolare riguardo all'analisi dei fenomeni di massa, ad aspetti considerati patologici come il razzismo, all'approfondimento delle motivazioni che sono alla base di piccoli e grandi eventi. In particolare ci si interessava alle autobiografie dei protagonisti della storia in ambito militare, politico, sociale, artistico, riconsiderate alla luce della psicologia e psicopatologia del profondo. In assenza di scritti autobiografici sono state utilizzate anche altre fonti, tutto ciò che permettesse uno studio in tale direzione.
Lo stesso Freud si dedicò all'approfondimento psicologico di persone del passato come Mosè o più recenti come Napoleone, cercando fondamentalmente una conferma alle proprie teorie piuttosto che ad una comprensione dei loro vissuti cognitivi ed emotivi. Assai diversa e più pertinente appare l'indagine su Mosè da parte di Buber che pure non era né psicologo né psichiatra e cerca di discernere fatti storici all'interno della leggenda.
La bibliografia a tale proposito appare ormai immensa ed in questa sede ci si limita a titolo di esempio allo studio di Lutero da parte di Erikson e di Hitler da parte di Langer compiuto contemporaneamente alla vita del dittatore tedesco su commissione del governo americano.
In ambito più vicino all'oggetto del nostro interesse si deve citare una interessante “Psicoanalisi del Vangelo” da parte di Dolto la quale, molto saggiamente, non analizza i protagonisti del Nuovo Testamento, ma si limita a fornire interpretazioni relazionali e simboliche rispetto a diversi avvenimenti fra i quali, in particolare, alcuni miracoli oltre che il concepimento di Gesù ad opera dello Spirito Santo.
Un'esegesi basata sulla psicologia degli archetipi secondo Jung è stata elaborata da Drewermann, mentre la figura di San Paolo, tramite quanto dice di se stesso nelle sue lettere, meglio si presta ad un approfondimento psicologico (Berger).
L'obiettivo di questo saggio è più mirato: attraverso la conoscenza maturata in anni di studio e di pratica clinica, l'autore cerca nello studio dei testi una verisimiglianza psicologica fra i racconti Evangelici circa la vita e, soprattutto, la morte di Gesù da una parte e la Sua Risurrezione dall'altra, cioè una conformità nella narrazione che permetta di escludere la possibilità di falsità e manipolazioni che sarebbero indicate dalla comparsa, ad esempio, di uno stile agiografico ed apologetico, anche in buona fede.
Le teorie psicologiche cui si fa riferimento sono fondamentalmente quelle sistemico-relazionali e quella psicodinamica adleriana per le quali si rimanda ai testi citati in bibliografia.
Uno strumento di analisi psicologica che non si impara sui libri, ma si apprende nel corso della vita, non solo professionale, è l'empatia: la capacità di mettersi nei panni dell'altro, anche se vi è una notevole distanza di tempo ed una scarsità di informazioni.
I Vangeli non sono stati scritti come documentazione storica destinata a durare nei secoli e, comunque, non da storiografi di professione. Costituiscono una testimonianza sintetica, ma essenziale, di una tradizione e di una predicazione orale destinata ai contemporanei per dare maggiore diffusione alla Parola di Gesù. Tale caratteristica comporta che rispetto ad uno scritto con valore storico si abbiano meno informazioni, ma il testo fornisce una immediatezza tipica della cronica.
A tale proposito appare utile una breve divagazione per fornire alcune sintetiche considerazioni sugli aspetti psicologici della testimonianza.
Più ancora che psicologi e psichiatri, il personale investigativo di polizia ed i giudici sanno quanto possano essere fra loro differenti le testimonianze oculari rese da persone diverse che hanno assistito allo stesso evento.
Escludendo la menzogna, numerosi possono essere i motivi che rendono le testimonianze fra loro assai differenti, limitandosi, appunto, a quelle rese in perfetta buona fede.
Si consideri la posizione spaziale rispetto all'evento. Ci si può trovare a distanza variabile: talora sono presenti oggetti più o meno ingombranti che limitano la visuale per cui alcune persone riescono a notare particolari che, invece, sfuggono ad altre.
Importanti sono le condizioni di illuminazione variabili non solo in rapporto alla luce del sole ed alle zone d'ombra, ma anche in relazione alla luce artificiale. Oltre a ciò bisogna pensare alle condizioni acustiche del contesto.
Importante è la dimensione temporale per cui una persona può essere già presente quando un determinato fatto ha inizio, mentre un'altra giunge più tardi od andarsene via prima della conclusione.
La condizione soggettiva della persona riveste una rilevanza notevole. Le capacità di attenzione e concentrazione possono essere modificate da variabili interiori come le condizioni di salute o l'uso di sostanze esogene quali droghe e farmaci.
Possono influire fattori affettivi: l'emotività più o meno accentuata, sia costituzionale che legata all'evento oggettivo, può incidere sulle capacità di attenzione e concentrazione sia in senso positivo che negativo. L'emozione può indirizzare la concentrazione dell'individuo su particolari significativi, o, al contrario, sviarla su aspetti insignificanti. In alcuni casi un soggetto può volutamente distogliere la propria attenzione sottraendosi all'evento: fuggire, nascondersi, chiudere e coprirsi gli occhi o tapparsi le orecchie.
La reazione soggettiva può variare in relazione al coinvolgimento emotivo: un estraneo potrà mantenere una fredda concentrazione, mentre una persona coinvolta nell'evento avrà una reazione emotiva che può giungere fino alla perdita dei sensi o all'intervento attivo, trasformandosi da spettatore in attore.
La reazione comportamentale tramite un intervento attivo può diminuire la capacità di attenzione ed incidere grandemente sul ricordo.
Il ricordo stesso appare un fattore importante in quanto va incontro a trasformazioni nel tempo. Più ci si allontana dall'evento e più il ricordo tende a perdere nitidezza sia in qualità che quantità, impoverendosi di particolari anche significativi. Talora può succedere l'esatto contrario: un aspetto più o meno importante emerge a distanza di tempo proprio perché la partecipazione emotiva incide al momento dei fatti, ma successivamente si riesce a ricuperare un distacco affettivo che facilita il ricordo. Tuttavia, è assai difficile valutare che non si tratti, invece, di una confabulazione, cioè di un episodio o di un particolare inventato inconsciamente. Fatti successivi possono fornire nuovi dati concernenti l'evento in questione suscitando ricordi la cui aderenza alla realtà non è sempre facilmente valutabile. Da questa trattazione si vogliono escludere testimonianze volutamente false perché legate a paura o interessi personali. In tali casi una persona può variare la propria narrazione dei fatti perché nel frattempo è scomparsa una persona che incuteva timore o sono variate determinate circostanze per cui l'evento in oggetto acquista o perde importanza sia a livello soggettivo che generale.
Si sottolinea il ruolo determinante della personalità dell'individuo. Una persona sicura di sé, egosintonica, tenderà a non avere incertezze nemmeno se confrontata con evidenti prove contrarie. Invece, un soggetto insicuro, egodistonico, potrà variare la propria testimonianza in relazione ad ogni minimo dubbio sia interiore che sollevato da altri.
Si vuole ancora ricordare che la validità di una testimonianza può essere supportata dalla presenza di un ricordo insignificante tanto da non avere particolare attinenza con il nucleo del racconto.
Nel Vangelo di San Marco se ne trova un esempio molto significativo sottolineato da B. Prete: la guarigione del cieco Bartimeo (10, 46-52). L'episodio è raccontato anche da San Matteo (20, 29-34) e da San Luca (18, 35-43) con caratteristiche diverse che riportano a quanto già detto circa la fisiologica trasformazione del ricordo.
In questo caso si vuole segnalare la presenza di un particolare assolutamente secondario: “il cieco buttò via il mantello, balzò in piedi e andò vicino a Gesù” (Marco, 10, 50).
Quel gesto di buttare via il mantello non ha nessuna importanza rispetto al racconto, non aggiunge e non toglie nulla. L'ipotesi psicologica più probabile è che solo un testimone oculare abbia notato il fatto e lo abbia riferito nell'integrità della narrazione.
Appare notevole la differenza, ad esempio, con la guarigione della figlia di Giairo (San Matteo, 9, 18-26; San Marco, 5, 21-43; San Luca, 8, 40-56) in cui i tre evangelisti riportano il fatto che Giairo si inginocchiò davanti a Gesù, gesto significativo dell'atteggiamento di fede.
Al di là di questa tematica che può essere orale o scritta, esistono vari modi per indagare un'opera letteraria dal punto di vista psicologico:
- analizzare l'opera di uno scrittore per sottoporre ad analisi lo scrittore stesso,
- analizzare la vita di uno scrittore per comprendere dal punto di vista psicodinamico la sua opera,
- cercare nell'opera di uno scrittore intuizioni che siano in sintonia con una determinata teoria psicologica, anticipandola, sia pure per aspetti limitati, di uno spazio temporale più o meno ampio,
- analizzare un'opera con lo stesso procedimento interpretativo applicato al sogno: indagare il contenuto latente che si cela dietro quello manifesto.
Tutto ciò rimane estraneo agli intenti di questo saggio per quanto sopra scritto circa la scarsità di informazioni e perchè non pertinente agli obiettivi di questa ricerca.
Si può ritenere più affine lo studio già citato di Buber circa la ricerca di fatti storici all'interno della leggenda, ma ciò va oltre i limiti dell'indagine psicologica e, comunque, si parte dal presupposto che i Vangeli non siano leggenda, ma, come già detto, cronaca, anche se non necessariamente di fatti di cui si è stati testimoni diretti.
Come già detto in precedenza, poco o nulla sappiamo circa gli evangelisti e tanto meno sulla loro personalità. A parte la definizione conferita da Gesù stesso a Giovanni evangelista e a suo fratello Giacomo di “figli del tuono”, cioè impetuosi (Marco 3,17), appare difficile rintracciare riferimenti diretti nei quattro Vangeli se non eventi e dialoghi il cui utilizzo per un approfondimento psicologico appare un'operazione che definirei improntata a superbia professionale, antitetica all'empatia.
In questo saggio non si procederà ad una analisi psicolinguistica che parte dallo studio delle parole, della costruzione sintattica e semantica delle frasi anche tramite l'ausilio di strumenti informatici, per il semplice motivo che chi scrive non è esperto in tale disciplina e si rimanda a lavori specifici in questo settore che, però, non sembrano portare contributi rilevanti.
Fondamentale appare il contributo di Latourelle circa i criteri ermeneutici applicabili allo studio del Nuovo Testamento.
- Analisi sintattica.
- Analisi semantica.
- Critica letteraria: interna a ciascun Vangelo e fra i quattro Vangeli; esterna rispetto al linguaggio ed allo stile narrativo di quell'epoca, non solo in ambito ebraico.
- Criteri storici. Primari: attestazione molteplice; discontinuità rispetto alla tradizione ebraica, cioè originalità della predicazione di Gesù; continuità con la tradizione ebraica, cioè appartenenza di Gesù alla cultura ebraica; interdipendenza fra continuità e discontinuità; spiegazione necessaria per cui si deve scegliere la spiegazione più semplice per comprendere diversi fatti come, ad esempio, la continuità fra comunità pre-pasquale e post-pasquale.
Secondari: lo stile di vita di Gesù, l'uniformità del suo messaggio, del suo esempio, del suo comportamento: semplicità, sobrietà, autorità.
- Criteri misti (storico-letterari): intellegibilità interna del racconto; interpretazioni diverse, ma con accordo di fondo fra i quattro evangelisti; soggettività di ogni evangelista.
- Convergenza di criteri.
Non possiamo approfondire le implicazioni teologiche di tale sintetico panorama circa i criteri ermeneutici concernenti i Vangeli in quanto esulano dalle competenze di chi scrive che è psichiatra e psicoterapeuta per cui si rimanda alla bibliografia. Un accostamento allo studio dei Vangeli esula certamente dalla psichiatria, ma può concernere l'esperienza derivante dalla pratica psicoterapeutica.
Questa è centrata sulla relazione paziente-terapeuta e sull'analisi della narrazione del primo da parte del secondo che, evidentemente non tiene tutto gelosamente per sé, ma restituisce al paziente interpretazioni che mettono in relazione aspetti della narrazione stessa in modo da gettare nuova luce su di essi permettendo l'acquisizione di una nuova consapevolezza di sé. La psicoterapia può essere intesa come il racconto da parte del paziente della propria vita paragonabile ad un romanzo la cui trama è andata perduta e viene rintracciata e riscritta a quattro mani insieme al terapeuta.
A questo proposito entrano in gioco diversi fattori teorici ed attinenti alla prassi terapeutica che possono variare a seconda della scuola psicodinamica di riferimento.
Non potendo addentrarci in quello che rischierebbe di diventare un manuale di teoria e tecnica della psicoterapia, ci limitiamo al concetto di empatia, già incontrato nel corso della trattazione, in quanto rappresenta lo strumento principale su cui si fondano le considerazioni che verranno sviluppate.
L'empatia è una funzione psichica definita come la capacità di mettersi nei panni degli altri ed è presente in misura maggiore o minore in ogni essere umano. Ne sono sprovvisti o poco provvisti i disturbi di personalità come, ad esempio, quello asociale. L'empatia è, infatti, una componente del “sentimento sociale” elaborata dalla teoria adleriana di cui ne rappresenta un aspetto essenziale accanto all' “aspirazione alla superiorità”.
L'empatia fa parte della vita quotidiana e diventa uno strumento fondamentale nel rapporto medico-paziente e, soprattutto, in psicoterapia.
L'empatia, infatti, è una funzione complessa: affettiva in quanto ci permette di entrare in risonanza emotiva con il nostro prossimo; cognitiva poiché favorisce la conoscenza dell'altro tramite ciò che so di me, ma anche viceversa.
Rappresenta un importante ausilio nel comprendere se l'altro mente o tace delle informazioni, permette di ipotizzare gli eventuali motivi per cui si comporta in un determinato modo.
Certamente l'empatia non rappresenta una macchina delle verità, ammesso che ne esiste una, e deve essere sottoposta al vaglio critico della ragione la quale ricerca conferme tramite la verifica dei dati acquisiti attraverso altre vie come il confronto con altre narrazioni, procedimento che la psicologia condivide con la storiografia.
Tramite l'empatia si può cercare di comprendere come una persona potrebbe comportarsi in una determinata circostanza e ciò vale anche per se stessi.
Si vuole proporre una esemplificazione di ciò tramite un racconto che concerne l'argomento trattato.

Se ci fossi stato

“Dobbiamo ridiventare capaci di sentire ancora in noi ciò che vi è di eroico in Gesù….Solo allora il nostro cristianesimo e la nostra concezione del mondo ritroveranno l’eroico e ne saranno vivificati”
A. Schweitzer

Un interrogativo pesa come un macigno.
“Se ci fossi stato, che cosa avrei fatto?
Se ci fossi stato, quale nome avrei gridato: Gesù o Barabba?
Se ci fossi stato, sarei rimasto in disparte, in silenzio?
Se ci fossi stato in quale silenzio sarei rimasto, quello che urlava per Gesù o quello che urlava per Barabba?
Se ci fossi stato, avrei voltato le spalle e me ne sarei andato cercando di passare inosservato, sperando che succedesse qualcosa perché nulla di nuovo accadesse che avrebbe potuto cambiare la mia vita e le mie consolidate abitudini?
Se ci fossi stato, avrei sperato che succedesse qualcosa perché iniziasse un mondo nuovo, migliore, più giusto?
Se ci fossi stato, avrei fatto qualcosa perché questo accadesse?
Eppure io ci sono stato, io c’ero, io ci sono.
Eppure tutti ci siamo stati, c’eravamo, ci siamo.
Anzi, ci siamo sempre stati, siamo ancora lì, non ci siamo mai mossi da lì.
Se ci fossimo stati, che cosa avremmo fatto?
Se c’eravamo, che cosa abbiamo fatto?
C’è solo una risposta, una sola valida per ognuno di noi, diversa per ciascuno di noi.
Avrei obbedito a chi mi imponeva di gridare Barabba o sarei stato fra coloro che cercavano la Via, la Verità, la Vita?
Se ci fossi stato, avrei gridato Gesù?
Chi gridava Gesù doveva essere pronto a morire.
Chi gridava Gesù doveva essere pronto a morire per un mondo in cui chi gridava Gesù non sarebbe dovuto morire.
E’ forse questo il regno di Dio?
Se è così, allora non bisogna mai smettere di porsi la domanda:
Se ci fossi stato, che cosa avrei fatto?”




I VANGELI

I Vangeli canonici sono quelli riconosciuti tali, cioè ufficiali, autentici dalla chiesa cattolica e, quindi, anche dalle altre professioni cristiane, già nel Concilio di Roma (382), nel Sinodo di Ippona (393) ed in quello di Cartagine (397). Ci troviamo in epoca relativamente recente rispetto alla vita di Gesù e molto prima delle divisioni che hanno portato all'esistenza di diverse chiese cristiane.
Tutto ciò che non è stato riconosciuto “canonico” è rientrato in una vasta produzione di scritti “apocrifi”.
Per autenticità dei Vangeli si intendeva a quel tempo la conformità alla predicazione di Gesù, quindi una coerenza intrinseca, e l'attribuzione a persone che le testimonianze storiche indicavano come gli Autori dei quattro Vangeli.
Questo secondo aspetto è sostenuto da una documentazione scritta che ci è pervenuta e risale ai primi Padri della chiesa già a partire dal 100 d.C.
Molte sono le citazioni dei Vangeli che si trovano nelle opere dei primi autori cristiani e particolarmente importanti sono alcuni riferimenti diretti.

Vangelo secondo San Matteo
La testimonianza più importante è quanto affermato da Papia, vescovo di Jerapoli in Frigia nella “Spiegazione dei detti del Signore”.
Tale scritto non è giunto fino a noi, ma lo si conosce attraverso quanto riportato da Eusebio di Cesarea nella sua opera “Storia ecclesiastica” (324 d.C., circa).
Papia così scrive intorno al 125: “Matteo coordinò i detti in lingua ebraica; ciascuno poi li ha interpretati come poteva”. Molti codici (cioè copie scritte a mano prima dell'invenzione della stampa) riportano “scrisse” al posto di “coordinò).
La testimonianza scritta da Papia è molto vicina agli eventi di cui parla. Inoltre, sempre in base alle citazioni di Eusebio e di altri scrittori cristiani successivi, Papia avrebbe conosciuto di persona qualche discepolo degli apostoli e, quindi, poteva essere erede diretto di testimonianze orali.
Rimangono aperte diverse questioni circa tali testimonianze. Non si sa se i detti siano frasi attribuibili a Gesù stesso o qualcosa di più vasto. Non si sa se Matteo coordinò, cioè raccolse degli scritti o mise per iscritto egli stesso una tradizione orale esistente.
Papia fa riferimento ad un Vangelo, o a un suo abbozzo, in ebraico che non ci è pervenuto. Il Vangelo di Matteo, come gli altri, esiste nella sua forma originaria in greco prima di essere tradotto in latino.
Si potrebbe ipotizzare l'esistenza di una raccolta frammentaria di scritti in ebraico che avrebbe avuto una sua forma più completa in greco probabilmente ad opera dello stesso Matteo.
Origene (185-254 d.C.), citato da Eusebio, scrive: “Come ho appreso nella tradizione a proposito dei quattro Vangeli, che sono gli unici incontrastati nella Chiesa di Dio che è sotto il cielo, dapprima è stato scritto quello secondo Matteo, originariamente pubblicano e poi apostolo di Gesù Cristo: egli lo ha pubblicato per i credenti venuti dall'ebraismo e lo ha composto in lingua ebraica”.
Il Vangelo ebraico di Matteo si situerebbe fra il 50 ed il 60 d.C. e quello greco fra il 60 ed il 70 d.C.

Vangelo secondo San Marco
Anche per il Vangelo di Marco appare fondamentale la citazione di Papia, riportata da Eusebio di Cesarea (324 d.C., circa). Papia si appella alla testimonianza di Giovanni il presbitero, da alcuni identificato in Giovanni l'evangelista.
Scrive Papia: “Questo soleva dire il presbitero: Marco, interprete di Pietro, scrisse con esattezza tutto quello che ricordava, ma non con l'ordine secondo il quale erano avvenute le cose dette e compiute dal Signore. Egli, infatti, non aveva ascoltato il Signore, né lo aveva seguito, ma più tardi, come ho detto, l'aveva seguito. Pietro, che insegnava secondo i bisogni, non già disponendo secondo un ordine i discorsi del Signore, Marco, quindi, non cadde in errore nello scrivere alcune cose così come le ricordava. Egli, infatti, si preoccupava solo di questo: non tralasciare nulla delle cose che aveva ascoltato, né mentire nel riferirle” (Eusebio, Storia ecclesiastica).
Marco è citato sia negli Atti degli Apostoli che da Paolo nelle sue lettere.
Il Vangelo di Marco corrisponderebbe alla predicazione di Pietro. Ciò risulterebbe attestato anche da altri padri della chiesa come Ireneo, Tertulliano, Clemente Alessandrino, Origene, altrove citati, e da Epifanio (“Ancoratus” 374 d.C. circa) e Girolamo (“De viris illustribus” 392 d.C. circa).
Tuttavia, un particolare del suo Vangelo, lascerebbe pensare che sia stato egli stesso testimone oculare almeno degli ultimi giorni della vita di Gesù.
Nel racconto della cattura di Gesù così si legge: “Un giovinetto poi lo seguiva, coperto di un lenzuolo sul corpo nudo e lo afferrarono; egli però, abbandonando il lenzuolo, fuggì via nudo (Marco, 14,51). Si tratta di un particolare assolutamente secondario rispetto agli eventi narrati, difficilmente oggetto della predicazione di Pietro. Sembrerebbe trattarsi di una sorta di “firma” in cui Marco parla di se stesso.
Marco avrebbe raccolto la predicazione di Pietro a Roma o in Italia in generale e l'avrebbe messa in forma scritta in greco poco dopo il 60 d.C.
I Vangeli di Marco e Matteo risulterebbero più o meno contemporanei, almeno nella loro forma considerata definitiva.

Vangelo secondo San Luca
Il terzo Vangelo sarebbe stato scritto da Luca o Lucano.
Testimonianze di ciò risalgono alla fine del II secolo e provengono dal Canone Muratoriano * e, soprattutto, da Ireneo di Lione che nel libro Adversus Haereses (180 d.C., circa) afferma che Luca, compagno di Paolo, ha raccolto in un libro il Vangelo predicato da Paolo.
Di Luca si sa assai poco essendo una persona estranea ai fatti che racconta, come egli stesso afferma.
Notizie su di lui si trovano nelle lettere di Paolo dalla quali si evince che era medico e che avrebbe incontrato l'evangelista Marco (Lettera ai Colossesi 4, 14).
Altre informazioni ci giungono dagli Atti degli Apostoli in cui chi scrive si presenta come autore di un Vangelo. La critica moderna tende ad attribuire la paternità dei due scritti alla stessa persone per l'omogeneità dello stile linguistico e narrativo.
Entrambe le opere sono scritte in greco che sarebbe stata la lingua madre di Luca il quale non era ebreo, ma ellenista, probabilmente originario dell'Asia Minore. Sarebbe diventato discepolo di Paolo e lo avrebbe seguito nei suoi viaggi. In alcune parti degli Atti scrive “noi” contravvenendo al fatto che tutti i testi neotestamentari sono scritti in terza persona, compresa la maggiore parte degli Atti stessi.
Nei preamboli sia del Vangelo che degli Atti, Luca si rivolge ad un certo Teofilo scrivendo in prima persona. In quello del Vangelo afferma di scrivere dopo essersi documentato diligentemente sui fatti narrati nel libro, dopo che altri avevano già lasciato testimonianze scritte.
D'altronde se il suo Vangelo corrisponde alla predicazione di Paolo che non era discepolo diretto di Gesù, è plausibile che risulti molto simile a quelli di Matteo e Marco (costituendo nel loro insieme i tre Vangeli sinottici) in quanto Paolo stesso, per quanto concerne la narrazione degli eventi, si doveva appoggiare su testimonianze orali e documentazioni scritte. Per integrare la predicazione di Paolo, Luca può avere attinto a fonti preesistenti, come lascerebbe pensare quanto scritto nel preambolo. In questo modo Luca confermerebbe l'esistenza dei due Vangeli precedenti il suo datato fra il 70 e l'80 d.C. mentre le prime lettere di San Paolo sarebbero state scritte fra il 50 ed il 60 d.C.
* Il Canone Muratoriano rappresenta il più antico elenco degli scritti Neotestamentari fra cui compaiono i quattro vangeli canonici e non altri. Scritto in latino da un anonimo risalirebbe al VIII secolo d.C. ed è stato scoperto nella Biblioteca Ambrosiana di Milano da Ludovico Muratori e pubblicato nel 1740. Si ritiene che possa essere la copia di un originale greco risalente alla fine del II secolo d.C.

Vangelo secondo San Giovanni
Giovanni e suo fratello Giacomo, in base a quanto riportato da Matteo e Marco, erano figli di Zebedeo, un pescatore della Galilea, e di una delle donne che seguivano Gesù insieme agli apostoli. Potrebbe trattarsi di Salome.
Nel suo Vangelo si fa riferimento al “discepolo che Gesù amava” identificabile in Giovanni stesso.
Ireneo di Lione, nell'opera Adversus Haereses, scrive: “in seguito Giovanni, il discepolo del Signore, quello che riposò sul petto di Lui, ha pubblicato anch'egli un Vangelo quando dimorava ad Efeso, in Asia”.
Ireneo dichiara, inoltre, di avere conosciuto in giovinezza Policarpo, vescovo di Smirne, che aveva conosciuto personalmente Giovanni e di cui era stato probabilmente discepolo.
L'attribuzione del quarto Vangelo a Giovanni è molto contestata. Alcuni ritengono che sia attribuibile a Giovanni il Presbitero, il quale, il base alla testimonianza di Papia, riportata da Eusebio, sarebbe stato anche lui un discepolo di Gesù, ma distinto da Giovanni l'apostolo. Si ritiene che il Prologo sia stato scritto successivamente, intorno al 180 d.C., così come è opinione diffusa che il passo concernente la donna adultera sia stato anch'esso inserito successivamente.
Molti ritengono che Giovanni e Giovanni il Presbitero* siano la stessa persona. Infatti, il quarto Vangelo sarebbe stato scritto assai dopo gli altri intorno all'anno 100 d.C. e, quindi, quando l'apostolo era molto in là negli anni.
Nonostante che il quarto Vangelo sia considerato il più teologico, si è anche riscontrata una coerenza interna con descrizioni dei luoghi della Palestina e di Gerusalemme assai accurate, come testimonia, ad esempio, il ritrovamento archeologico della piscina di Siloe.
Il Vangelo di Giovanni si conclude con una discussione fra Gesù e Pietro dalla quale si evincerebbe la testimonianza che Giovanni, probabilmente il più giovane fra gli apostoli, sia morto molto vecchio.
La differenza rispetto ai sinottici potrebbe essere dovuta proprio al fatto di essere stato scritto più tardi degli altri ed in tarda età dello scrivente. Si può sostenere che i ricordi era più sbiaditi, cosa che non sembrerebbe confermata dalla precisione di tante descrizioni di fatti e luoghi. E' stato invece osservato che Giovanni avrebbe avuto più tempo per meditare e comprendere il messaggio di Gesù. Inoltre sarebbe stato scritto quando molti altri testimoni e protagonisti erano morti. Si può sostenere che Giovanni si sia sentito più libero di scrivere senza timore di essere smentito, cosa poco credibile per chi aveva seguito il Signore e ne aveva assimilato il messaggio. Più probabilmente la maggiore libertà era ascrivibile al fatto di non urtare più la suscettibilità di personaggi anche importanti o non compromettere la posizione di persone quali Nicodemo e Giuseppe di Arimatea che erano stati vicini a Gesù in modo piuttosto riservato.
Un'ultima riflessione riguarda il passo dell'adultera. Se è stato effettivamente aggiunto in un secondo tempo, ciò può mettere in discussione l'attendibilità del quarto Vangelo. Tuttavia, si può anche osservare che la narrazione dell'episodio è talmente in linea con le opere e le parole di Gesù che la sua aggiunta posteriore sia dovuta a qualche discepolo di Giovanni da cui aveva sentito raccontare l'episodio. Ciò testimonierebbe quanto la tradizione orale e quella scritta fossero talmente intrecciate da rendere i Vangeli dei libri ancora “vivi” a pochi anni dalla morte di Gesù e rivolti più alla predicazione contemporanea, alla cronaca, piuttosto che costituire una testimonianza storica destinata a durare nei secoli.
*Presbitero in greco significa vecchio.

Atti degli Apostoli

Tale opera è comunemente attribuita a San Luca e sarebbe di poco posteriore al suo Vangelo. Lo stile narrativo e linguistico lascerebbero poco dubbi al fatto che l'autore delle due opere sia la stessa persona. Alcuni pensano che inizialmente si trattasse di un unico libro, poi suddiviso per accorpare il Vangelo agli altri, in particolare di Marco e Matteo con cui costituisce il gruppo dei Sinottici per le numerose somiglianze di narrazione che li accomunano.
La prima parte degli “Atti” si riferisce alla nascente chiesa di Gerusalemme, ma la seconda, assai più lunga narra della predicazione di Paolo di cui Luca sarebbe stato discepolo accompagnandolo nei suoi viaggi fino a Roma dove il libro termina.
La narrazione in terza persona, tipica del Nuovo Testamento, viene sostituita dalla prima persona in due parti, entrambe assai lunghe (21, 1-7; 27, per intero; 28, 1-16).
L'attribuzione degli “Atti” a Luca è affermata da Ireneo di Lione in Adversus Haereses, da Tertulliano in Adversus Marcionem (210 d.C. circa) e da Clemente Alessandrino (150-215 d.C. circa) nel Pedagogo e nei Miscellanea.

Lettere di San Paolo

Le notizie riguardanti San Paolo ci vengono dalle sue lettere stesse e dagli Atti degli Apostoli. Ebreo, nativo di Tarso, cittadino romano, è stato un persecutore dei primi discepoli di Gesù fino al 36 d.C. circa, anno in cui si situa la sua conversione. Da molti è considerato il primo teologo cristiano per la ricca elaborazione personale del messaggio di Gesù che ha diffuso soprattutto fra i pagani.
Sono considerate autentiche: la Lettera ai Romani, la Lettera ai Filippesi, la Lettera ai Galati, la Lettera ai Colossesi, le due Lettere ai Corinzi e le due Lettere ai Tessalonicesi. Non sono invece considerate attribuibili a Paolo, ma forse a suoi discepoli: la Lettera agli Efesini, la Lettera a Tito, le due Lettere a Timoteo. Dubbia appare l'attribuzione della Lettera agli Ebrei.
La prima Lettera ai Corinzi e la lettera ai Galati, che maggiormente ci interessano per le nostre osservazioni, sarebbero state scritte nel 57 d.C. circa. Si tratta, dunque, di documenti cronologicamente molto vicini alla vita di Gesù.
Riferimenti alle Lettere di Paolo si trovano nelle Lettere di Ignazio di Antiochia (35-107 d.C. circa), suo discepolo, e negli scritti di Policarpo (69-155 d.C. circa) e Marcione (85-160 d.C. circa) citati da Ireneo di Lione.

RISURREZIONE

Vangelo secondo San Matteo

Ai fini di questa trattazione appare importante sottolineare la continuità di narrazione fra gli avvenimenti concernenti la morte di Gesù e la scoperta della Sua Risurrezione.
I primi, a parte la sorveglianza della tomba ordinata da Pilato su insistenza dei Sommi Sacerdoti, si concludono con la deposizione nella tomba del corpo di Gesù da parte di Giuseppe di Arimatea.
Al versetto 27,61 si legge: “intanto due delle donne, Maria Maddalena e l'altra Maria, stavano lì sedute di fronte alla tomba”.
I racconti della Risurrezione riprendono proprio dalle due donne: “Passato il sabato, all'alba del primo giorno della settimana, Maria Maddalena e l'altra Maria andarono a vedere la tomba di Gesù (28,1). Vi fu un terremoto ed un angelo del Signore fece rotolare la grossa pietra che chiudeva il sepolcro ed annunciò alle due donne la risurrezione di Gesù invitandole ad andare a vedere dov'era il suo corpo. Mentre, spaventate, ma piene di gioia, correvano ad annunciare la notizia ai discepoli, Gesù venne incontro a loro e disse:”Non abbiate paura. Andate a dire ai miei discepoli di recarsi in Galilea: là mi vedranno” (28,10).
A questo proposito appaino rilevanti due considerazioni.
La prima ha un carattere psicologico: il contrasto di sentimenti presente nelle due donne, paura e gioia, è comprensibile davanti ad avvenimenti di tale importanza.
La seconda ha un aspetto legale: nell'antichità in generale ed in quella ebraica in particolare, le donne non avevano diritto giuridico di testimonianza. Come è stato da molti osservato, avrebbe avuto maggiore credibilità un' apparizione a persone di genere maschile. Tuttavia, l'Evangelista non sembra porsi tale problema e si attiene a quello che possiamo considerare l'effettivo avvenimento storico, l'apparizione a persone di genere femminile. D'altronde è stato osservato che in vita Gesù si era rivolto a uomini e donne senza distinzione e già questo viene considerato un importante aspetto innovativo della Sua predicazione.
Al termine del Vangelo Gesù appare ai discepoli. “Gli undici discepoli andarono in Galilea, su quella collina che Gesù aveva indicato. Quando lo videro, lo adorarono. Alcuni, però, avevano dei dubbi” (28,16). Gesù li rassicura con le celebri parole che concludono il Vangelo: “e sappiate che io sarò sempre con voi, tutti i giorni, sino alla fine del mondo”.
Non può sfuggire la frase “alcuni, però, avevano dei dubbi”. Se si scrive per convincere, una tale frase appare controproducente. Persino loro, i Suoi discepoli, dubitavano vedendolo. Nessuno nei secoli successivi ha pensato di cancellare queste parole scomode. Nessuno si è sentito scandalizzato da quella che possiamo ritenere una perfetta corrispondenza del racconto alla realtà dei fatti successivi alla Risurrezione.

Vangelo secondo San Marco

In questo Vangelo il passaggio dal racconto della sepoltura a quello della Risurrezione è ancora più immediato. “Intanto due delle donne, Maria Maddalena e Maria madre di Ioses, stavano a guardare dove mettevano il corpo di Gesù” (15,47).
Appare opportuno soffermarsi sulla precisazione offerta da Marco che è più specifico rispetto a Matteo: “Maria madre di Ioses”. Si ritiene comunemente che il Vangelo di Marco sia la versione scritta della predicazione orale di San Pietro, anche se non nella sua totalità. Ioses non è un personaggio che compaia nei Vangeli in qualche episodio specifico, per cui è probabile che sia stato citato in quanto conosciuto alla comunità cristiana di quel tempo più di quanto fosse la madre stessa. Tale osservazione rinforza la tesi del valore di cronaca divulgativa che i Vangeli rivestivano nei primi decenni dopo la morte di Gesù e la loro vicinanza alla predicazione orale almeno in alcuni casi.
L'annunzio della Risurrezione viene immediatamente dopo: “passato il sabato, Maria Maddalena, Maria, madre di Giacomo, e Salome comprarono olio e profumi per andare a ungere il corpo di Gesù. La mattina presto del primo giorno della settimana, al levare del sole, andarono alla tomba”. Si interrogavano su come avrebbero potuto spostare la pietra posta davanti al sepolcro, ma la trovarono già spostata. Allora entrarono e, piene di spavento, videro un giovane che disse loro che Gesù era risuscitato e le invitava ad annunziare ai discepoli che Gesù li aspettava in Galilea come aveva preannunciato in vita.
“Le donne uscirono dalla tomba e scapparono via di corsa, tremanti di paura e non dissero niente a nessuno perché avevano paura” (16, 1-8). Allora Gesù apparve a Maria Maddalena che si recò dai discepoli, tristi e piangenti, annunciando che Gesù era vivo, ma non le credettero.
“Più tardi, Gesù apparve in modo diverso a due discepoli che erano in cammino verso la campagna. Anch'essi tornarono indietro e annunziarono il fatto agli altri, ma non credettero neanche a loro” (16, 12-13).
Diverse sono le considerazioni che si possono fare a proposito di tali racconti.
Le donne fuggono spaventate e tacciono per paura. Si tratta di una reazione psicologica più che comprensibile che avvalora la veridicità del racconto. Assai diverso sarebbe stata la narrazione di chi avesse voluto fornire una versione agiografica e non storica.
Solo dopo avere visto Gesù, Maria Maddalena ha il coraggio di recarsi dai discepoli. Inutile ripetere quanto già detto a proposito del valore della testimonianza delle donne nell'antichità.
I discepoli sono tristi e piangenti: si sentono abbandonati e, forse, persino traditi da Gesù che, morendo sulla croce, non ha mantenuto le Sue promesse messianiche.
Gesù appare ad altri due discepoli, ma gli apostoli non credono nemmeno a loro. Non hanno creduto a una donna e questo lo si può comprendere sulla base di quanto detto, ma non credono nemmeno a degli uomini che conoscevano.
Decisamente questa resistenza a credere, psicologicamente molto comprensibile, non sarebbe stata sottolineata da chi avesse voluto trasmettere un messaggio di trionfo. Decisamente la narrazione dei fatti relativi alla Risurrezione appare totalmente in linea per stile narrativo e descrizione psicologica ai racconti della vita e della morte di Gesù.
Marco precisa che ai due discepoli apparve “in modo diverso”. Tale episodio è probabilmente lo stesso più ampiamente riferito nel Vangelo di San Luca dove, come vedremo, i due discepoli riconoscono Gesù solo alla fine del loro incontro, dopo avere trascorso molto tempo con Lui.
“Alla fine Gesù apparve agli undici discepoli mentre erano a tavola. Li rimproverò perché avevano avuto poca fede e si ostinavano a non credere a quelli che lo avevano visto risuscitato” (16,14).
Questo rimprovero appare come un brutto biglietto da visita per chi porterà sia agli ebrei che ai pagani la predicazione di Gesù e chiederanno a loro volta di essere creduti. Si può concludere che gli apostoli non potevano e non volevano mentire. In questo dimostrano di avere compreso il messaggio di Gesù.

Vangelo secondo San Luca

La stessa soluzione di continuità fra i racconti della sepoltura e quelli della Risurrezione si ritrovano nel Vangelo di Luca.
“Era la vigilia del giorno di festa. Già stava per cominciare il sabato. Le donne, che erano venute con Gesù fino dalla Galilea, avevano seguito Giuseppe. Videro la tomba e osservavano come veniva deposto il corpo di Gesù. Poi se ne tornarono a casa per preparare aromi e unguenti. Il giorno festivo lo trascorsero nel riposo come prescrive la legge ebraica.
Il primo giorno della settimana, di buon mattino le donne andarono al sepolcro, portando gli aromi che avevano preparato per la sepoltura. Entrarono nel sepolcro, ma non trovarono il corpo del Signore Gesù” (23, 54-56; 24, 1-3).
Appare inutile sottolineare come non vi sia nessun cambiamento di stile narrativo fra il “normale” racconto relativo alla sepoltura e quello “eccezionale” del sepolcro vuoto.
Si impauriscono, tenendo la testa abbassata verso terra, quando due uomini appaiono loro annunciando la Risurrezione e spiegando che Gesù in vita l'aveva predetta. Solo allora le donne ricordano che Gesù aveva parlato della sua Risurrezione. Andarono a raccontare agli undici discepoli e a tutti gli altri quello che avevano visto e udito. Luca specifica che fra queste donne c'erano Maria, nativa di Magdala, Giovanna e Maria madre di Giacomo. “Ma gli apostoli non vollero credere a queste parole. Pensavano che le donne avessero perso la testa” (24,11). Non solo non credono, ma le ritengono impazzite. Solo Pietro corse al sepolcro, vide le bende e tornò a casa pieno di stupore. Ancora non capisce, non crede, stupisce, ma non gioisce.
Questo racconto appare in linea con quanto più volte sottolineato nei Vangeli: quando Gesù annuncia la Sua morte e Risurrezione, gli apostoli non capiscono, non credono, si rifiutano di farlo. Addirittura Pietro giunge a rimproverare Gesù mettendo in dubbio le Sue stesse parole: “no, questo non ti accadrà mai!” (Matteo, 16, 21-22). Sembra che gli apostoli fossero impauriti davanti all'ipotesi della morte di Gesù, paura motivata anche dal fatto di non capire e credere alla seconda parte della predizione: la Sua Risurrezione. Nei tre Vangeli Sinottici, oltre a quella citata, vi sono sette previsioni della propria Risurrezione (Matteo, 17, 22-23; 20, 17-29; Marco, 8, 31-32; 9, 30-32; 10, 32-34; Luca 9, 21-22; 18, 31-34), mentre in quello di Giovanni ve ne è una espressa in forma metaforica circa la distruzione del tempio e la sua ricostruzione in tre giorni operata da Gesù stesso (2, 18-21).
Luca prosegue con il celebre episodio di Emmaus. Due discepoli, uno di nome Cleopa e l'altro non identificato, si stanno recando da Gerusalemme al villaggio di Emmaus distante undici chilometri. Gesù si avvicinò a loro: “essi però non lo riconobbero, perchè i loro occhi erano come accecati” (24,16). Fingendo di non sapere che cosa era successo a Gerusalemme negli ultimi giorni, li indusse a metterlo al corrente. Stupiti della Sua ignoranza dei fatti, raccontarono gli avvenimenti della Risurrezione, dal sepolcro vuoto all'apparizione ad alcune donne “del loro gruppo”. A quel punto Gesù spiegò loro con autorità le Scritture che predicevano tali avvenimenti. Stupiti da tale sapienza, lo invitarono a trattenersi con loro a Emmaus. Mentre cenavano, Gesù prese il pane, pronunciò la preghiera di benedizione, lo spezzò e lo distribuì: “In quel momento gli occhi dei due discepoli si aprirono e riconobbero Gesù, ma lui sparì dalla loro vista” (24,31).
Allora tornarono a Gerusalemme dagli undici discepoli e il loro racconto fu creduto poiché Gesù era già apparso a Pietro.
Diverse sono le considerazioni suggerite da questo passo.
In primo luogo si noti la precisazione del nome di Cleopa, personaggio che non compare in nessun altro episodio dei quattro Vangeli. Evidentemente Luca si rivolge ai contemporanei, non scrive per la storia. Dà per scontato che tale persona sia conosciuta nella comunità dei primi discepoli di Gesù. Ciò sottolinea l'aspetto di cronaca divulgativa che i Vangeli hanno nel loro insieme.
Luca evidenzia, infatti, come i due discepoli rimangano fortemente sorpresi che Gesù non sappia nulla di quanto accaduto, tanto da ritenerlo l'unica persona ignara degli eventi. Ciò indica che gli episodi da loro narrati avevano già raggiunto una vasta diffusione presso la popolazione di Gerusalemme.
Si noti, quindi, come, nonostante il tempo passato insieme, i discepoli non riconoscano Gesù. Luca fornisce una interpretazione soggettiva: “i loro occhi erano come accecati” e si aprirono davanti al gesto di spezzare il pane. Potrebbero averlo riconosciuto nell'atto eucaristico dell'Ultima Cena a cui, però, nessuno dei due sarebbe stato presente, né Cleopa, né l'altro discepolo che non faceva parte degli undici apostoli rimasti. La loro “cecità” potrebbe essere dovuta ad un intervento divino come avviene nel Libro dell'Esodo: “ma il Signore rese ostinato il cuore del faraone, il quale non diede loro ascolto, come il Signore aveva predetto a Mosè” (Esodo, 9,12). Tuttavia, Gesù sparì dalla loro vista in modo subitaneo aprendo l'ipotesi che Egli avesse acquisito con la Risurrezione un nuovo corpo che possedeva potenzialità sconosciute a quello precedente, come la capacità di apparire, scomparire, trasformarsi.
A questo proposito appaiono molto significative le parole di San Paolo circa la Risurrezione dei corpi: esiste il corpo animale che va incontro al decadimento, ma dopo la morte il corpo dei risorti verrà trasformato in un corpo spirituale destinato a vita eterna (1 Corinzi). Diversi sono i concetti di rinascita (il corpo torna in vita come avviene nei miracoli descritti nei Vangeli: Lazzaro, il figlio della vedova di Nain, la figlia di Giairo) e quello di Risurrezione, di vita dopo la morte in cui il corpo risorto può avere caratteristiche e potenzialità diverse da quelle terrene.
Su come tutto ciò possa avvenire è forse meglio sospendere ogni interrogativo, evitare di costruire teologie non supportate dalla Rivelazione Evangelica, ma, piuttosto riferite alla filosofia di origine greca. Appare più saggio seguire la constatazione di Erasmo da Rotterdam che il Vangelo è più rivolto a fornire una guida su come preparare in questa vita quella dell'Aldilà sulla quale appare piuttosto reticente.
Luca prosegue la sua narrazione scrivendo che mentre gli undici apostoli ed i due discepoli di Emmaus stavano ancora parlando di queste cose “Gesù apparve in mezzo a loro”.
“Sconvolti e pieni di paura, essi pensavano di vedere un fantasma. Ma Gesù disse loro: perchè avete tanti dubbi dentro di voi? Guardate le mie mani e i miei piedi! Sono proprio io! Toccatemi e verificate: un fantasma non ha carne e ossa come vedete che ho io” (24, 37-39).
Gesù mostrava intanto le mani e i piedi. “Essi però, pieni di stupore e gioia, non riuscivano a crederci: era troppo grande la loro gioia!” (24, 41). Allora Gesù mangiò davanti a loro un pesce arrostito.
Fatto ciò, iniziò a spiegare loro in modo più compiuto quanto in vita aveva detto circa la Sua Risurrezione, invitandoli a portare a tutto il mondo il Suo messaggio essendo stati testimoni di tutti i fatti avvenuti.
Ancora una volta la prima reazione è di stupore, paura, incredulità. Sono convinti di vedere un fantasma. Questa volta accade un fatto nuovo: allo stupore si aggiunge la gioia. Non riescono a credere, ma è il non credere ai propri occhi per la gioia. E' il “non ci posso credere” che significa l'esatto contrario: sei proprio Tu! A ciò si aggiunga la spiegazione fornita da Gesù sulle predizioni circa la Propria Risurrezione una volta avvenuto il fatto. Finalmente ora è tutto chiaro e vero.
Qui sembra essere avvenuto quel cambiamento che ha trasformato la storia. Gli apostoli vedono e credono e da quel momento acquistano forza, coraggio, entusiasmo per affrontare il mondo nel nome di Gesù.
Si noti questa umanissima reazione di passaggio dalla paura alla gioia. Non c'è nessun tono agiografico, solo una descrizione dei fatti così come sono avvenuti, come può essere evidenziato da questa naturalissima reazione assolutamente spiegabile tramite la psicologia.
Luca non era presente ai fatti e li riporta come gli sono stati raccontati. Egli non era ebreo. Non si sa dove fosse nato, ma risulta che fosse di lingua madre greca. La Palestina dei tempi di Gesù era inserita nell'ampio tessuto culturale dell'ellenismo che, dopo la conquista da parte di Alessandro il Grande, era diffusa in tutta la parte orientale dell'impero romano e non solo in questa, considerato che dopo la conquista della Grecia, la stessa Roma ne aveva assorbito cultura e filosofia.
A questo proposito appare opportuna una precisazione. Nella filosofia greca vi era una netta distinzione fra corpo e anima, concezione che troviamo nella cultura moderna e nelle stesse religioni cristiane dopo secoli di speculazioni teologiche. Non era così nella cultura ebraica anche se con l'avvento dell'ellenismo questa si era aperta nelle sue correnti più dotte all'influenza della filosofia greca. Nell'ebraismo originario una tale distinzione non esisteva. Il corpo fisico era tenuto in vita dal “soffio vitale”, derivante da Dio stesso, che potremmo considerare un equivalente dell'energia biologica. Non sopravvive al corpo, come succede all'anima, concezione che a partire dalla filosofia greca è giunta fino alla nostra. Tale soffio diventa in latino “spiritum”, parola che rappresenta una forma di passaggio fra “respiro” e “anima”.
La parola “fantasma” corrisponde nell'originale greco a “pneuma”, indicante, appunto, “soffio”, “respiro”. Sembra che a questo proposito Luca abbia compiuto uno sforzo linguistico per attenersi alla concezione ebraica. In greco esiste la parola “fantasma” tradotta in vari modi: fantasma, larva, spettro, visione, prodigio, parvenza, apparenza, immagine.

Vangelo secondo San Giovanni

Anche Giovanni, come i tre sinottici, narra che Giuseppe di Arimatea, dopo avere chiesto il permesso a Pilato di prendere il corpo di Gesù, procedette alla sepoltura. Giovanni aggiunge alle altre narrazioni che anche Nicodemo vi prese parte portando un'anfora pesantissima piena di mirra con aloe. Vicino al luogo della crocefissione vi era un giardino con una tomba vuota e qui fu deposto il corpo di Gesù avvolte nelle bende con i profumi.
A questo proposito è stato osservato che la precisazione circa un'anfora pesantissima lascerebbe pensare che alla sepoltura abbiano partecipato più persone, la cui presenza era resa necessaria dalla preparazione del corpo stesso, avvolto nella bende e dalla chiusura del sepolcro con una pietra. Difficilmente una o due persone sarebbero state sufficienti.
Similmente agli altri evangelisti, Giovanni passa al racconto della Risurrezione senza nessun salto di stile narrativo.
“Il primo giorno della settimana, la mattina presto Maria di Magdala va verso la tomba, mentre è ancora buio, e vede che la pietra è stata tolta dall'ingresso” (20, 1). Corre da Pietro e da Giovanni, che si definisce come il discepolo prediletto da Gesù, e dice che hanno portato via il Signore dalla tomba e non si sa dove sia stato messo. Entrambi corrono. Giovanni arriva per primo, ma lascia che sia Pietro ad entrare e vede le bende in terra ed il lenzuolo che gli copriva la testa piegato da un'altra parte rispetto alle bende. Quindi anche Giovanni entra, anche lui vede e specifica “vide e credette”, narrando in terza persona, aggiungendo: “Non avevano ancora capito quello che la Bibbia dice, cioè che Gesù doveva risorgere dai morti” (20,9).
Ho verificato personalmente partendo dalla versione originale in greco, vocabolario alla mano, quanto osservato da alcuni (Messori, Persili). Una traduzione più aderente al testo originale descrive le bende “distese”, “appiattite”, integre, come se non avvolgessero più il corpo di Gesù. Giovanni fornisce, inoltre, un particolare apparentemente insignificante: il lenzuolo o sudario che gli copriva il capo era piegato, o meglio “avvolto” secondo una traduzione più esatta, in un luogo distante dalla bende. In poche, sintetiche parole, Giovanni ci descrive una situazione molto particolare: le bende sono rimaste integre mentre il lenzuolo sembra essere stato sbalzato lontano. Infatti, vide e credette non per quello che non aveva visto, cioè il corpo di Gesù, ma per un fatto giudicabile come miracoloso. La versione della Bibbia curata da G. Luzzi, definisce le bende “giacenti”, traduzione più accurata, ma piuttosto vaga.
Rispetto agli altri racconti evangelici, qui non ci sono incertezze, timori, dubbi, ma una verifica dei fatti che testimonia la verità. Vide e credette e comprese in quell'istante, insieme a Pietro, il valore delle predizioni circa la Risurrezione e solo dopo i discepoli si ricordarono e compresero pienamente le parole di Gesù: “quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che egli aveva detto questo, e credettero alle parole della Bibbia e a quelle di Gesù” (2, 22). E' assolutamente credibile e spiegabile dal punto di vista psicologico che una predizione di Risurrezione dai morti risultasse difficilmente comprensibile e, quindi, facilmente dimenticabile. Una volta avvenuto il fatto, tutto diviene improvvisamente chiaro. In questo caso la fede è prima di tutto fiducia.
Giovanni prosegue il suo racconto. Maria Maddalena deve avere seguito i due apostoli poiché la ritroviamo piangente vicino alla tomba. Le appaiono due angeli con cui ha un breve scambio di parole. Quindi, voltandosi, vede Gesù, ma non lo riconosce pensando che sia il giardiniere. Gesù le chiede perchè piange, chi sta cercando. Maria Maddalena ha il dubbio che sia stato proprio lui ad avere portato via il corpo di Gesù. Solo quando Gesù la chiama per nome “Maria!”, lo riconosce.
“Gesù le disse. Lasciami, perchè io non sono ancora tornato al Padre. Va' e dì ai miei fratelli che io torno al Padre mio e vostro, al Dio mio e vostro” (20, 17). Così lei fa annunciando agli apostoli di avere visto il Signore.
Anche in questo racconto bisogna notare che Gesù non viene riconosciuto subito, ma solo dopo avere compiuto un gesto, in questo caso chiamando per nome Maria Maddalena.
Segue la nota frase che inizia con la famosa espressione, soprattutto in latino, “noli me tangere”. La traduzione “non mi toccare” appare di difficile interpretazione e molti preferiscono tradurre con “non mi trattenere” o “lasciami”. In ogni caso si può ipotizzare che Gesù faccia riferimento ad una sua condizione “corporea” diversa da quella antecedente la Risurrezione, come abbiamo già visto e come avremo modo di considerare ulteriormente.
Il Vangelo secondo Giovanni prosegue: “La sera di quello stesso giorno, il primo della settimana, i discepoli se ne stavano con le porte chiuse per paura dei capi ebrei. Gesù venne, si fermò in piedi in mezzo a loro e li salutò dicendo ' la pace sia con voi '. Poi mostrò ai discepoli le mani e il fianco, ed essi si rallegrarono di vedere il Signore” (20, 19-20).
Qui non c'è nessuna reazione di stupore né di paura, ma di gioia. A questo riguardo si può notare che Giovanni avrebbe scritto il suo Vangelo in tarda età e, quindi, più lontano rispetto agli avvenimenti narrati. I sentimenti di segno negativo possono essere stati dimenticati o tralasciati. Tuttavia, è opportuno osservare, anche se Giovanni non si sofferma su tale dettaglio, che la reazione dei discepoli avviene dopo che Gesù mostra loro i segni del Suo martirio.
Giovanni specifica che le porte erano chiuse e Gesù appare ai discepoli con il corpo così come è stato sepolto dopo la crocefissione. Giovanni è preciso e sintetico nella sua narrazione. Non sembra avere bisogno di spiegare che il corpo di Gesù è lo stesso di prima, ma non è più lo stesso, ha delle potenzialità che prima non esistevano.
Il tema dell'incredulità ritorna nel famoso episodio di San Tommaso.
“Uno dei dodici discepoli, Tommaso, detto Gemello, non era con loro quando Gesù era venuto. Gli altri discepoli gli dissero ' abbiamo veduto il Signore '. Tommaso replicò ' se non vedo il segno dei chiodi nelle sue mani, se non tocco con il dito il segno dei chiodi e se non tocco con la mia mano il suo fianco, io non crederò '. Otto giorni dopo, i discepoli erano di nuovo lì, e c'era anche Tommaso con loro. Le porte erano chiuse. Gesù venne, si fermò in piedi in mezzo a loro e li salutò 'la pace sia con voi '. Poi disse a Tommaso ' metti qui il dito e guarda le mani; accosta la mano e tocca il mio fianco. Non essere incredulo, ma credente! '. Tommaso gli rispose ' mio Signore e mio Dio! '. Gesù gli disse ' tu hai creduto perchè hai visto; beati quelli che hanno creduto senza avere visto! ' “ (20, 24-29).
L'episodio, riportato integralmente, non ha bisogno di commenti.
Ci si limita ad osservare che è identica la descrizione dell'apparizione di Gesù, saluto compreso, e con la precisazione delle porte chiuse. Tommaso vede con i propri occhi il corpo di Gesù ed esprime la certezza della propria fede. Con questo episodio Giovanni sembra affermare in modo deciso che la predicazione dei discepoli circa la Risurrezione di Gesù e del Suo essere Dio nasce da una realtà storica, nel senso che appartiene alla storia dell'umanità fatta di avvenimenti realmente accaduti.
Dopo una prima conclusione, il Vangelo di Giovanni prosegue con due ulteriori episodi.
Pietro, Tommaso, Nataniele, Giovanni, Giacomo e altri due discepoli stavano pescando sul lago di Tiberiade. Gesù si presentò sulla riva, chiese se avevano del pesce ed alla loro risposta negativa, disse di gettare la rete dal lato destro della barca. Allora pescarono molti pesci e Giovanni riconobbe Gesù. Lo raggiunsero sulla riva e mangiarono insieme. Gesù diede loro pane e pesci. Nessuno di loro osava chiedere “chi sei'” perchè sapevano che era il Signore. Giovanni precisa che questa fu la terza apparizione di Gesù ai discepoli dopo la Risurrezione.
Il secondo episodio, conosciuto come la “Riabilitazione di Pietro” è un dialogo fra questi e Gesù di notevole importanza teologica, ma che esula dalla presente ricerca. Ci interessa la parte finale in cui Gesù predice che Giovanni sarebbe vissuto molto a lungo. Quando Giovanni scrive il suo Vangelo, tale predizione è probabilmente già avverata. Nella seconda e ultima conclusione del Vangelo, Giovanni attesta di essere proprio lui l'autore di questo Vangelo, essendo il discepolo a cui Gesù si riferiva parlando a Pietro.

Atti degli Apostoli

Negli Atti degli Apostoli si trovano cinque importanti discorsi di Pietro in cui egli parla della Risurrezione.
Sono tutti discorsi pubblici. I primi due sono rivolti al popolo di Gerusalemme: il giorno della Pentecoste e poi al Tempio davanti ad una folla radunatasi in seguito alla guarigione di uno storpio operata da Pietro stesso insieme a Giovanni.
Il terzo, sempre in compagnia di Giovanni ed il quarto, con tutti gli apostoli, avvengono in un ambiente ostile davanti al sinedrio dove erano presenti molte persone che avevano giudicato Gesù stesso.
Il quinto è pronunciato in casa di Cornelio, un ufficiale romano convertitosi al cristianesimo, alla presenza di pagani ed ebrei.
Questi sono i passi riferiti alla Risurrezione.
- “Quest'uomo, secondo le decisioni e il piano prestabilito da Dio, è stato messo nelle vostre mani e voi, con la complicità di uomini malvagi, lo avete ucciso inchiodandolo a una croce. Ma Dio l'ha fatto risorgere, liberandolo dal potere della morte. Era impossibile infatti che Gesù rimanesse schiavo della morte” (2, 23-24).
- “Voi avete fatto condannare il Santo e il Giusto e avete preferito la liberazione di un criminale. Così avete messo a morte Gesù, che dà la vita a tutti. Ma Dio lo ha fatto risorgere dai morti e noi tutti ne siamo testimoni” (3, 14-15) dove “tutti” si riferisce agli Apostoli.
“Fratelli, so bene che voi e i vostri capi avete agito contro Gesù senza sapere quello che stavate facendo. Ma Dio, in questo modo, ha portato a compimento quello che aveva annunciato per mezzo dei profeti e cioè che il Messia doveva soffrire” (3, 17-18).
- Davanti al sinedrio Pietro intende spiegare la guarigione dello storpio. “Ebbene, una cosa dovete sapere, voi e tutto il popolo d'Israele: quest'uomo sta davanti a voi guarito, perchè abbiamo invocato il nome di Gesù Cristo, il Nazareno, quel Gesù che voi avete messo in croce e che Dio ha fatto risorgere dai morti” (4, 10).
- Il quarto discorso è ancora rivolto al sinedrio. Sono presenti tutti gli apostoli. Probabilmente parla solo Pietro, ma anche gli altri sembrano partecipare attivamente in base a quanto Luca riferisce. “In risposta Pietro e gli apostoli dissero: si deve obbedire a Dio piuttosto che agli uomini. Il Dio dei nostri padri ha risuscitato Gesù che voi avete ucciso sospendendolo al legno. Dio però lo ha innalzato alla sua destra come guida e salvatore par dare a Israele la grazia della conversione e della remissione dei peccati. Di questi fatti siamo testimoni noi e lo Spirito Santo che Dio ha dato a coloro che gli obbediscono” (5, 29-32).
- “Del resto, noi siamo testimoni di tutto quello che Gesù ha fatto nel paese degli Ebrei e a Gerusalemme. Lo uccisero mettendolo in croce, ma Dio lo ha fatto risorgere il terzo giorno e ha voluto che si facesse vedere non a tutto il popolo, ma a noi scelti da Dio come testimoni. Infatti dopo la sua risurrezione dai morti noi abbiamo mangiato e bevuto con lui, poi egli ci ha comandato di annunziare al popolo e di proclamare che egli è colui che Dio ha posto come giudice dei vivi e dei morti” (10, 39-42).
Luca riferisce che dopo la Risurrezione Gesù apparve agli Apostoli per quaranta giorni dopodiché ascese al cielo (1, 3). Dieci giorni più tardi, durante la festa della Pentecoste, con la discesa dello Spirito Santo “sui credenti riuniti nello stesso luogo” (2, 1-4), Pietro proclama con viva forza che Gesù è risorto “e noi tutti ne siamo testimoni”.
Quale cambiamento si è verificato rispetto allo stupore, all'incredulità, al timore dei primi giorni. Gesù non è più con i suoi discepoli, ma Pietro, facendosi portavoce di tutti gli Apostoli (il posto di Giuda era stato preso da uno dei discepoli, Mattia, 1, 26) esce allo scoperto, in pubblico, per proclamare solennemente e con coraggio, nelle quattro occasioni prese in esame, la Risurrezione di Gesù Cristo. Appare importante sottolineare l'affermazione di testimonianza diretta di avere mangiato e bevuto con lui.
Secondo un approccio psicologico si possono senz'altro fornire molte spiegazioni di questo cambiamento, come si preciserà nelle conclusioni. Tuttavia, dal punto di vista del metodo scientifico, quando si hanno a disposizione diverse ipotesi, occorre partire dalla più semplice: tale sicurezza proviene dalla certezza che quanto proclamato è realmente accaduto.
Ciò appare rinforzato dall'affermazione che Gesù è apparso non a tutti, ma solo a coloro che Dio aveva scelto come testimoni. Quale sincerità si può ravvisare in questa frase pronunciata pubblicamente. Ancora una volta si può ribadire che non è così che si mente.
Ad ulteriore rinforzo di ciò si riporta un significativo passo degli atti degli Apostoli che non necessita di commenti. “I membri del tribunale ebraico erano davvero stupiti della franchezza con la quale Pietro e Giovanni parlavano, tanto più che si trattava di persone semplici e senza cultura, e avevano dovuto riconoscere che erano stati seguaci di Gesù. In presenza di quell'uomo guarito, che stava accanto a loro, non sapevano che cosa dire. Fattili allontanare dal tribunale si consultavano fra loro dicendo: che facciamo a questi uomini? Il segno avvenuto attraverso loro è evidente ed è noto a tutti gli abitanti di Gerusalemme e ci è impossibile negarlo” (4, 13-16).
E' possibile che Luca abbia avuto tali informazioni da Nicodemo, Giuseppe di Arimatea e anche Paolo di Tarso.
Il secondo discorso davanti al sinedrio offre l'occasione per importanti riflessioni.
Nonostante l'ostilità del sinedrio che ha proceduto a incarcerare gli apostoli, le loro parole dimostrano un coraggio crescente ed una sempre maggiore consapevolezza della missione di Gesù.
Si può notare la precisazione “il Dio dei nostri padri”, cioè lo stesso Dio a cui è rivolta la fede di tutti i giudei.
Gesù è guida e salvatore per il popolo d'Israele per ricevere “la grazia della conversione e la remissione dei peccati”. In particolare quest'ultima espressione ripete le parole stesse di Gesù pronunciate durante l'ultima cena. Questo ed altri passi dimostrano come la riflessione comunitaria conduca gradualmente, ma rapidamente ad una comprensione della missione e della persona di Gesù: solo Dio può rimettere i peccati.
Inoltre, ne sono testimoni non solo gli apostoli, ma lo Spirito Santo inviato a chi obbedisce a Dio.
Si può notare un salto di qualità in questo discorso. Gli apostoli non si limitano a difendersi proclamando un fatto, la Risurrezione di Gesù, ma manifestano una crescente presa di coscienza della sua vita e delle sue parole, dialogando da pari a pari con il sinedrio, anzi con un'autorità maggiore sentendosi illuminati dallo Spirito Santo.
Negli Atti degli Apostoli sono riportati anche tre racconti dell'apparizione di Gesù a San Paolo; uno in terza persona (9, 3-18) e due con le parole dell'apostolo stesso (22, 6-10; 26, 12-18). Sono fra loro sovrapponibili, ma il più completo appare quello pronunciato davanti al re Agrippa, figlio di Erode Agrippa, e a sua sorella Berenice.
Recandosi a Damasco per la sua attività di persecuzione dei cristiani, autorizzata dai capi dei sacerdoti, in pieno giorno vide una luce che scendeva dal cielo, più forte del sole, che sfolgorava intorno a lui ed ai suoi compagni.
“Tutti cademmo a terra e io sentii una voce in ebraico che diceva: Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?Perché ti rivolti come fa un animale quando il suo padrone lo pungola? Io domandai: chi sei Signore? Allora il signore rispose: io sono Gesù che tu perseguiti. Ma ora alzati e sta' in piedi. Tu mi renderai testimonianza dicendo quello che hai visto oggi e proclamando quello che ti rivelerò ancora. Ti libererò da tutti i pericoli, quando ti manderò dagli ebrei e dai pagani” (26, 14-17).
Gesù aggiunge ancora che la sua missione sarà di aprire i loro occhi e quelli che crederanno in Lui avranno il perdono dei peccati e faranno parte del popolo santo.
A seguito di questa apparizione Paolo perse la vista che ricuperò alcuni giorni dopo a Damasco affidato alle cure di un fedele di nome Ananìa. In quell'occasione fu battezzato.
Si può notare che la luce fu vista da tutti, ma solo Paolo udì la voce, anche se nel primo racconto afferma che anche la voce fu udita da tutti, mentre nel secondo lo nega. Si può ragionevolmente pensare che la voce fu udita, ma i presenti non ne distinsero le parole. Ciò sembrerebbe confermato dal racconto reso in terza persona (9, 3-18) dove Luca afferma che “udivano il suono della voce”, significando con ogni probabilità una percezione indistinta (9, 7).

Lettere di San Paolo

San Paolo ha sviluppato una importante teologia della Risurrezione, ma quanto ci interessa evidenziare in questa sede sono le notizie che fornisce circa il suo “incontro” con Gesù risorto.
L'apparizione di Gesù a Paolo è descritta tre volte negli “Atti degli Apostoli” ed in due di queste viene riportata la narrazione con le parole dell'apostolo stesso (9, 3-8; 22, 6-10; 26, 12-18).
Nella prima Lettera ai Corinzi Paolo afferma che Gesù è apparso a Pietro e ai dodici apostoli: “quindi a più di cinquecento discepoli riuniti insieme. La maggiore parte di essi è ancora in vita, mentre alcuni sono già morti. In seguito è apparso a Giacomo, e poi a tutti gli apostoli. Dopo essere apparso a tutti costoro, alla fine è apparso anche a me, benché io, tra gli apostoli, sia come un aborto. Infatti, io sono l'ultimo degli apostoli; non sono neanche degno di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la chiesa di Dio” (15, 6-9).
Questa descrizione riporta un fatto che non è riferito in nessun altro passo del Nuovo Testamento: l'apparizione a più di cinquecento discepoli. E' stato notato che Paolo sottolinea che molti di loro sono ancora in vita. Si può ipotizzare che queste persone fossero conosciute alla prima comunità di fedeli e, forse, se ne tenesse un elenco aggiornato, tenendo conto di quanti nel frattempo deceduti. Paolo appare assai informato fornendo una notizia non altrimenti riportata e si sente investito dell'autorità di riferirla.
Si noti ancora che tutte la apparizioni di Gesù riportate nei Vangeli sono rivolte a discepoli che non solo lo conoscevano, ma potevano riconoscerLo anche grazie agli occhi illuminati dalla fede che permettevano di superare difficoltà già illustrate. Non si sa se fra i cinquecento e più discepoli ve ne fossero alcuni che tali erano diventati a seguito della predicazione degli apostoli, senza avere incontrato di persona Gesù.
Certamente Paolo non era un discepolo, anzi era un persecutore dei primi fedeli, inseguendoli anche fuori della Palestina, fino a Damasco sulla cui via si è manifestata l'apparizione di Gesù.
Paolo usa parole di grande umiltà, ma non ha dubbi, come riportato dalle descrizioni riferite negli “Atti” di avere avuto un incontro con Gesù risorto con caratteristiche identiche a quelle degli altri discepoli fra cui gli undici apostoli.
Nella stessa lettera egli giunge ad affermare: “non sono libero io? Non sono forse apostolo? Non ho veduto Gesù , il nostro Signore? E voi, non siete proprio voi il risultato del mio lavoro al servizio del Signore? Se altri non vogliono riconoscermi come apostolo, per voi lo sono senz'altro. Il fatto che voi crediate in Cristo è la prova che io sono apostolo” (9, 1-2).
Paolo lascia intendere che esistevano a suo riguardo dei contrasti all'interno della prima comunità di credenti. Eppure il suo ragionamento ha una forza che difficilmente potrebbe avere se Paolo nutrisse dei dubbi circa la realtà del suo incontro con Gesù o, ancora peggio e da considerarsi ipotesi impossibile, fosse in malafede.
La certezza della chiamata da parte di Gesù è tale che dopo la conversione non chiese consiglio a nessuno e solo dopo tre anni si recò a Gerusalemme per confrontarsi con gli apostoli, incontrando solo Pietro e Giacomo: “ma Dio decise di rivelarmi suo Figlio, perchè lo facessi conoscere fra i pagani. Nella sua bontà, già prima della mia nascita, mi aveva destinato a questo incarico e poi mi chiamò. Allora non chiesi consiglio a nessuno. Non mi recai nemmeno a Gerusalemme da coloro che erano stati apostoli prima di me, ma andai subito in Arabia. Poi tornai direttamente a Damasco. Solo tre anni dopo andai a Gerusalemme per conoscere Pietro e non vidi nessuno degli altri apostoli, a eccezione di Giacomo, il fratello del Signore” (Galati 1, 15-19).
Quattordici anni più tardi, a seguito di una rivelazione, non ulteriormente specificata, si recò nuovamente a Gerusalemme per illustrare la sua predicazione presso i pagani.
Tali visite a Gerusalemme sembrerebbero motivate dal bisogno di appianare eventuali divergenze e dimostrare la sua appartenenza al nucleo della chiesa nascente al fine di tacitare incomprensioni e contrasti che sorgevano proprio dalla sua predicazione rivolta ai pagani.
Nel terzo racconto della sua conversione riportato negli “Atti”, Paolo precisa che Gesù gli aveva detto di diffondere il Suo messaggio presso i pagani rendendolo universale ed in questo egli ravvisa la specificità della sua missione.
Sulla base di questi dati appare più difficile tentare una ricostruzione storico-psicologica dei fatti narrati rispetto ai Vangeli. Tuttavia, tenendo conto dell'opera di Paolo nella sua globalità, appare difficile ipotizzare che egli non basasse la sua predicazione sulla certezza di un vissuto esistenziale realmente accaduto.

CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE

Sui Vangeli è stato scritto di tutto ed il contrario di tutto.
E' stato sostenuto che sono frutto di pura fantasia e non hanno nessun valore né storico né religioso.
Si è considerata la possibilità che siano stati scritti senza nessuno aderenza ad una realtà storica, ma che, comunque, abbiano un valore religioso in quanto ispirati da Dio stesso. E' stato anche ipotizzato che esista una discordanza fra il Gesù storico e il Gesù narrato dagli evangelisti.
E' opinione sostenuta da alcuni che i racconti riferiti alla Risurrezione siano stati inventati a seguito di un fenomeno di suggestione collettiva da parte dei discepoli di Gesù che hanno creduto in quello che volevano credere sulla base di qualche episodio allucinatorio o di estasi isterica. La delusione per una fine giudicata ingloriosa ha spinto i suoi discepoli, o alcuni di essi, ad inventare un seguito che permettesse loro di vivere in funzione del Maestro, diventato con il passare del tempo Messia, Figlio di Dio, Dio stesso: un'avventura così coinvolgente, entusiasmante non poteva finire così, nel nulla.
C'è, evidentemente, chi sostiene che è tutto vero, realmente accaduto, ma può essere solo oggetto di fede. Ogni approccio tramite la ragione è inutile e controproducente. Ogni ricerca scientifica sarebbe impossibile o rappresenterebbe quasi una mancanza di rispetto nei confronti di Gesù, in quanto si può asserire che la scienza nasce dal dubbio o in questo, comunque, affonda le sue radici. Un approccio scientifico rischierebbe di confondere le certezze su cui i fedeli basano il proprio credo.
Un fatto simile sarebbe accaduto con la filosofia scolastica che, cercando di analizzare la Rivelazione tramite la filosofia, in particolare quella greca, ha talora creato opinioni e dogmi estranei al messaggio del Vangelo.
Erasmo da Rotterdam era favorevole all'uso della ragione, ma invitava ad usarla in modo molto discreto, evitando di erigere sulla base di questa opinioni dogmatiche. Era del parere che la lettura e la comprensione del Vangelo non fossero un fatto statico, stabilito una volta per tutte, ma dinamico in relazione all'evoluzione della storia dell'umanità.
Un esempio può essere fornito dall'opinione di Küng. Nel Medio Evo il centro di interesse era sulla natura di Dio e delle tre Persone componenti la Trinità. Oggi l'attenzione è maggiormente rivolta alla relazione intercorrente fra le tre Persone al loro interno e nei confronti dell'umanità: Dio Padre, al di sopra di me, indica la via; Gesù, mio fratello mi è accanto, compagno di viaggio; lo Spirito Santo mi sostiene dentro di me.
Ritornando al filone principale di questo scritto, ci si unisce a quanti considerano l'indagine scientifica non antitetica alla fede, ad essa non sostituibile, ma un utile strumento di sostegno per un credo illuminato e dinamico, aperto alla discussione ed al confronto.
Non si vuole tornare a quanto già detto e più volte ribadito nella pagine precedenti, limitandosi a ricordare che l'analisi degli aspetti psicologici, per quanto possibile, evidenziabili dalle caratteristiche delle narrazioni e dallo stile narrativo dei racconti concernenti la Risurrezione, indica che i discepoli non erano preparati all'esperienza dell'incontro con Gesù risorto ed a confrontarsi con potenzialità del Suo corpo che in vita si erano manifestate nella Trasfigurazione, a cui avevano assistito solo tre apostoli, Pietro, Giovanni e Giacomo (Matteo 17, 1-9; Marco 9, 2-9; Luca 9, 28-36) e nel camminare sulla superficie dell'acqua (Matteo 14, 22-32; Marco 6, 45-51; Giovanni 6, 16-21).
Non avevano compreso il significato delle parole di Gesù sulla Sua Risurrezione e, probabilmente, numerosi altri aspetti della Sua predicazione e delle Sue opere come testimonia proprio Marco a proposito del camminare sulle acque: “Infatti non avevano capito neppure il miracolo dei pani: si ostinavano a non capire nulla” (Marco, 6, 52).
A tale proposito appare opportuno ritornare in modo più completo ed approfondito alla risposta data da Pietro su sollecitazione di Gesù stesso: “Tu sei il Messia, il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. In Marco e Luca troviamo dizioni diverse: “Tu sei il Messia, il Cristo” (Marco 8, 29; “Tu sei il Messia, il Cristo promesso da Dio” (Luca 9, 20).
In primo luogo si può osservare che una cosa l'avevano capita: Gesù non era uno dei tanti rabbi che predicarono in quel tempo e prima e dopo di quello in Palestina. Era molto di più, il Messia promesso da Dio al popolo di Israele, variamente inteso nelle profezie dell'Antico Testamento anche perchè spesso espresse con frasi di difficile interpretazione (Deuteronomio 18, 15; Daniele 7, 13-14). Risulta, d'altronde che Gesù fosse assai noto e stimato in quanto nell'opinione popolare era considerato un ritorno in terra di Giovanni Battista, o di Elia o Geremia o di uno degli antichi profeti come attestano i Sinottici (Matteo, 16, 14; Marco 8, 28; Luca 9, 19).
Si noti che solo Matteo aggiunge “il Figlio del Dio vivente”.
Questo ci permette di avanzare un'ipotesi assai importante per la comprensione su base psicologica dei Vangeli. Molti hanno sostenuto che la Risurrezione è il fatto fondamentale per spiegare quel fenomeno unico che è stata la diffusione del cristianesimo soprattutto nei primi secoli e che tale fatto doveva essere reale e non immaginario. Nelle pagine precedenti abbiamo considerato quanto i racconti circa la Risurrezione risultino attendibili e verosimili. Non è improbabile che la prima vera presa di coscienza circa l'origine divina di Gesù sia stata espressa in modo chiaro ed eclatante da Tommaso “mio Signore e mio Dio!”. La Risurrezione è l'evento che ha aperto gli occhi ai discepoli di Gesù, ha permesso loro di comprenderne vita, opere, parole, di dare significato a tante cose che prima risultavano oscure. La Risurrezione ha causato una reazione di apertura mentale che ha gettato nuova luce sugli eventi passati. Il Vangelo di Matteo, come tutto il Nuovo Testamento, è stato scritto dopo la morte e Risurrezione di Gesù. Un evento nuovo permette di meglio comprendere i ricordi e dare loro un significato più profondo. Non vi è nulla di psicologicamente più comprensibili del fatto che Matteo abbia scritto “Figlio di Dio” solo dopo essere stato testimone della Risurrezione e delle parole di Tommaso a completamento del ricordo o rielaborazione dello stesso. Gli altri Evangelisti si sono maggiormente attenuti ai fatti o non hanno riportato le parole di Matteo perchè le avevano dimenticate in quanto non comprese.
Infatti, la Risurrezione ha catalizzato un processo psicologico ed esistenziale che non si è certo esaurito in pochi secondi o minuti, ma può avere richiesto anni. Basti pensare al Vangelo di Giovanni, di molto successivo agli altri. Si pensi al Prologo o alle seguenti parole di Gesù: “Io non prego soltanto per questi miei discepoli, ma prego anche per gli altri, per quelli che crederanno in me dopo avere ascoltato la loro parola. Fa' che siano tutti una cosa sola: come tu, Padre, sei in me e io sono in te, anch'essi siano in noi. Così il mondo crederà che tu mi hai mandato” (17, 20-21).
Uomini che, sia pure dopo molte incertezze, sono giunti a comprendere la più elevata concezione di Dio che mai sia stata espressa nella storia, non possono avere mentito.
A questa conclusioni giunge la ragione. Si potrebbe obiettare: la ragione di chi scrive. Obiezione accolta, non potrebbe essere diversamente. Come si era detto all'inizio, il metodo seguito contiene in se stesso delle importanti limitazioni ed il materiale da esaminare è estremamente ampio, ma povero di indicazioni psicologiche esplicite, impossibili da verificare in quanto risalgono al passato, ad un'epoca da noi distante, anche se assai vicina agli eventi narrati.
La scienza non fornisce certezze, ma osservazioni che ne producono altre.

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