Dal terrazzo di casa
guardava la montagna di fronte.
Più volte aveva cercato
da solo o accompagnato dai figli di ritrovare un antico sentiero che
portava fino all'alpe abbandonata che stava sotto la vetta.
Ogni tentativo era stato
invano anche se una volta ce l'aveva quasi fatta, ma la minaccia di
un temporale imminente l'aveva scoraggiato a proseguire.
Aveva rinunciato da tempo
e ora si limitava a scrutare il fianco della montagna, talora con
l'aiuto del binocolo, alla ricerca ancora di un indizio, ma sapeva
che non gli sarebbero stati concessi ulteriori tentativi data l'età.
La montagna era bella da
guardare inondata dal sole caldo d'estate, tanto più bella al
pensiero che all'alpe difficilmente ci sarebbe salito qualcuno.
Era un po' come
contemplare la luna.
La sua mente vagava per
altri sentieri, simili a quelli della montagna, ma ancora più alti e
impegnativi.
Quante volte in vita sua
aveva detto o si era sentito dire “Che cosa farei senza di te?” o
“Che cosa faresti senza di me?”.
Non capiva quale
attinenza quelle semplici, apparentemente banali domande che per lo
più venivano pronunciate con tono scherzoso, avessero a che fare con
i massimi sistemi della filosofia che occupavano in quel momento la
sua mente.
Non riusciva, in
particolare, a staccare il pensiero da Descartes, dal suo “penso,
dunque sono” (1637).
Non era certo il primo a
trovarsi a disagio con questa affermazione anche se il suo parere di
pensatore spicciolo non contava affatto, non interessava nessuno.
Eppure era sempre stato
affascinato dalla perenne ricerca da parte dell'uomo di un qualcosa
che desse significato e consistenza alla vita.
Il pensiero di Descartes
non lo convinceva, lo trovava inconsistente, aleatorio. Qualcun'altro
può pensare dentro di me, io posso essere il pensiero di un altro e
la mia esistenza da certa si fa solo probabile e persino nulla.
“Che cosa farei senza
di me?”
La domanda arrivò
improvvisamente e gli occupò la mente in modo assoluto e totale.
Che razza di domanda era?
Che cosa significava? Era un'assoluta stupidaggine che cercava di
scacciare dai suoi pensieri come un' assurdità priva di senso e ridicola.
Eppure la domanda
persisteva, si faceva sempre più insistente, non aveva nessuna
voglia di lasciarlo in pace inchiodandolo alla sedia, folgorato senza
nemmeno riuscire a più a pensare, bloccato in un niente sospeso nel
nulla.
Non riuscì più a
restare seduto.
Avvertì il bisogno
imperioso di alzarsi.
Iniziò ad andare in giro
in lungo e in largo per il giardino.
Si precipitò dentro
casa. Chiese al computer: “Che cosa farei senza di me?”
Nessuna risposta alla sua
domanda compariva sullo schermo: che cosa farei senza di te, che cosa
faresti senza di me, ripetute quasi all'infinito.
In effetti alla sua
domanda non esisteva che una risposta: niente.
Se c'è una risposta,
allora il quesito ha una sua legittimità logica, una validità
esistenziale e non è, dunque, un paradosso.
Eppure, è proprio questa
la soluzione: niente più res cogitans e res extensa contrapposte
l'una all'altra, bensì l'unità, anzi, l'unione di pensiero e
azione.
Io faccio, dunque esisto.
Se faccio, gli altri mi
vedono fare, dunque esisto.
Se faccio qualcosa, lo
faccio per gli altri e con gli altri: dunque, io esisto, quindi, noi
esistiamo.
L'uomo è le opere che
compie, è la relazione che lo lega al prossimo suo.
L'uomo sapiens rimane
prima di tutto uomo faber.
Già l'aveva capito San
Paolo: “e quando avessi il dono di profezia e conoscessi tutti i
misteri e tutta la scienza e avessi tutta la fede da trasportare i
monti, se non ho carità non sono nulla" (I Corinzi 13, 2).
La carità è amore e
l'amore si esprime nell'agire: attuare il bene come forma suprema del
fare.
Decisamente bisogna
riflettere sul Nuovo Testamento come fondamento non solo di teologia,
ma anche di filosofia.
Tornò a guardare la
montagna di fronte osservando il suo profilo stagliato contro il
cielo nitido: non gli era mai parsa così bella.