Cerca nel blog

mercoledì 5 settembre 2018

Riflessioni filosofiche


Dal terrazzo di casa guardava la montagna di fronte.
Più volte aveva cercato da solo o accompagnato dai figli di ritrovare un antico sentiero che portava fino all'alpe abbandonata che stava sotto la vetta.
Ogni tentativo era stato invano anche se una volta ce l'aveva quasi fatta, ma la minaccia di un temporale imminente l'aveva scoraggiato a proseguire.
Aveva rinunciato da tempo e ora si limitava a scrutare il fianco della montagna, talora con l'aiuto del binocolo, alla ricerca ancora di un indizio, ma sapeva che non gli sarebbero stati concessi ulteriori tentativi data l'età.
La montagna era bella da guardare inondata dal sole caldo d'estate, tanto più bella al pensiero che all'alpe difficilmente ci sarebbe salito qualcuno.
Era un po' come contemplare la luna.
La sua mente vagava per altri sentieri, simili a quelli della montagna, ma ancora più alti e impegnativi.
Quante volte in vita sua aveva detto o si era sentito dire “Che cosa farei senza di te?” o “Che cosa faresti senza di me?”.
Non capiva quale attinenza quelle semplici, apparentemente banali domande che per lo più venivano pronunciate con tono scherzoso, avessero a che fare con i massimi sistemi della filosofia che occupavano in quel momento la sua mente.
Non riusciva, in particolare, a staccare il pensiero da Descartes, dal suo “penso, dunque sono” (1637).
Non era certo il primo a trovarsi a disagio con questa affermazione anche se il suo parere di pensatore spicciolo non contava affatto, non interessava nessuno.
Eppure era sempre stato affascinato dalla perenne ricerca da parte dell'uomo di un qualcosa che desse significato e consistenza alla vita.
Il pensiero di Descartes non lo convinceva, lo trovava inconsistente, aleatorio. Qualcun'altro può pensare dentro di me, io posso essere il pensiero di un altro e la mia esistenza da certa si fa solo probabile e persino nulla.
“Che cosa farei senza di me?”
La domanda arrivò improvvisamente e gli occupò la mente in modo assoluto e totale.
Che razza di domanda era? Che cosa significava? Era un'assoluta stupidaggine che cercava di scacciare dai suoi pensieri come un' assurdità priva di senso e ridicola.
Eppure la domanda persisteva, si faceva sempre più insistente, non aveva nessuna voglia di lasciarlo in pace inchiodandolo alla sedia, folgorato senza nemmeno riuscire a più a pensare, bloccato in un niente sospeso nel nulla.
Non riuscì più a restare seduto.
Avvertì il bisogno imperioso di alzarsi.
Iniziò ad andare in giro in lungo e in largo per il giardino.
Si precipitò dentro casa. Chiese al computer: “Che cosa farei senza di me?”
Nessuna risposta alla sua domanda compariva sullo schermo: che cosa farei senza di te, che cosa faresti senza di me, ripetute quasi all'infinito.
In effetti alla sua domanda non esisteva che una risposta: niente.
Se c'è una risposta, allora il quesito ha una sua legittimità logica, una validità esistenziale e non è, dunque, un paradosso.
Eppure, è proprio questa la soluzione: niente più res cogitans e res extensa contrapposte l'una all'altra, bensì l'unità, anzi, l'unione di pensiero e azione.
Io faccio, dunque esisto.
Se faccio, gli altri mi vedono fare, dunque esisto.
Se faccio qualcosa, lo faccio per gli altri e con gli altri: dunque, io esisto, quindi, noi esistiamo.
L'uomo è le opere che compie, è la relazione che lo lega al prossimo suo.
L'uomo sapiens rimane prima di tutto uomo faber.
Già l'aveva capito San Paolo: “e quando avessi il dono di profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza e avessi tutta la fede da trasportare i monti, se non ho carità non sono nulla" (I Corinzi 13, 2).
La carità è amore e l'amore si esprime nell'agire: attuare il bene come forma suprema del fare.
Decisamente bisogna riflettere sul Nuovo Testamento come fondamento non solo di teologia, ma anche di filosofia.
Tornò a guardare la montagna di fronte osservando il suo profilo stagliato contro il cielo nitido: non gli era mai parsa così bella.